Da un certo punto di vista, I cani abbaiano. Personaggi noti e luoghi segreti (Garzanti, 2005) è la classica antologia di scritti “minori” o poco noti, firmati dal famoso autore di Colazione da Tiffany e di A sangue freddo. Ma se si leggono con attenzione certi testi che compongono questo libro discretamente voluminoso, al quale ne è poi seguito un secondo aggiornato (Ritratti e osservazioni, Garzanti 2008), si comincia a captare tra le righe che si può imparare molto sia dello scrittore che del personaggio Capote.
Non è, insomma, una semplice raccolta di articoli di testi occasionali, il cui scopo si riduce ad elencare delle occasioni di scrittura in ordine cronologico. Si tratta anche di un tentativo di chiarimento, di messa alla prova di certe idee. Idee sulla letteratura, sul cinema, sui viaggi, sulle persone che hanno lasciato traccia al di fuori del progetto specifico di un racconto o di un romanzo. Non proprio fuori dalla vita, ma nei margini che appartengono già alla scrittura, Capote ha raccolto le sue impressioni e, spesso, si tratta di illuminazioni. In un'esistenza come quella di Capote le oasi riflessive non sono state molte, si corre il rischio di trascinare nella corrente un'unica immagine, banale, quella dell'autore di un unico, famoso romanzo abbinato a un film. Le cose, per fortuna, stanno diversamente.
A parte due testi che occupano le prime pagine (Una voce d una nube, La Rosa Bianca), il resto del libro è articolato in poche sezioni molte dense: Colore locale (1946-50) appartiene al genere del diario di viaggio, tra New York, Brooklyn, New Orleans, Grecia, Marocco; Si sentono le muse (1956) è uno dei reportage più curiosi, realizzato durante una tournèe dell'opera americana Porgy and Bess in Russia. Il duca nel suo dominio è il titolo di una famosa intervista a Marlon Brando sul set di un film ambientato in Giappone (1956); Lo stile e i giapponesi, un testo il cui titolo farebbe pensare ad una digressione sulla vita in Oriente, ma che si apre, sorprendentemente, con un ricordo d'infanzia: “La prima persona che mi abbia colpito, al di fuori dell'ambito familiare, era un anziano signore giapponese, mr. Frederik Mariko. Mr. Mariko aveva un negozio di fiori a New Orleans. Lo conobbi quando avevo circa sei anni, e capitai per caso nel suo negozio, e nei dieci anni che durò la nostra amicizia, o fino a quando lui morì improvvisamente durante un viaggio a St. Louis su un battello a vapore, mi fece con le sue mani un'infinita di giocattoli: pesci volanti appesi a fili metallici, un giardino in miniatura, piumosi animali medievali, una danzatrice a cui si dava la carica e agitava un ventaglio per tre minuti, e questi giocattoli, troppo squisiti per giocarci, furono la mia prima esperienza estatica: rappresentavano un mondo e stabilirono un livello di gusto”.
Chiude il libro una sezione intitolata, laconicamente, Osservazioni (1959-67), che offre al lettore una galleria di ritratti di personalità della letteratura e del cinema: Ezra Pound e Karen Blixen, Jean Cocteau e Jane Bowles, Marylin Monroe, Bogart, Mae West, Cecil Beaton, etc. Sembra che Capote considerasse l'articolo su Marylin Monroe il migliore che avesse mai scritto, ma neppure gli altri sono da meno quanto a eloquenza, gusto del dettaglio, acume, leggerezza e, qualche volta, provocazione. Le prime righe del pezzo su Marylin non potrebbero essere più eloquenti quanto a quest'ultima caratteristica: “La Monroe? Solo una sciattona, in realtà, una divinità sovraccarica, nel senso che un jumbo banan split è sovraccarica ma divina”. Dopo aver notato che “il personaggio che lei interpreta, una figura derelitta dal pathos stuzzicante, è solido e di fascino convincente, e la cosa è ben comprensibile visto che c'è poca differenza tra la sua immagine sullo schermo e l'impressione che dà nella vita privata”, Capote si spinge oltre le apparenze, cerca di cogliere l'essenza del personaggio: “L'attrattiva delle due personalità nasce dalla medesima circostanza: il fatto che lei sia orfana, spiritualmente e concretamente; è segnata, e illuminata, dalle stimmate della mentalità dell'orfano”.
Se Hunphrey Bogart è ridotto ad una linea essenziale, al modo di parlare e all'etica del buon lavoratore dell’industria cinematografica- un ruolo che non si fatica ad immaginare corretto-, laddove Capote sembra voler aprire più spiragli di lettura è nei dintorni della sua stessa arte, ovvero nella narrativa. Gli incontri letterari qui raccolti hanno un fascino particolare che non si riduce all’aneddoto. Per esempio un breve ma intenso incontro con Isak Dinesen (Karen Blixen) porta lo stile di Capote a manifestarsi specialmente nelle descrizioni d’ambiente, nel modo di conservare certi particolari (“Un volto così sfaccettato, prismi che rifrangono lampi orgogliosi di intelligenza e di colta partecipazione, vale a dire saggezza, non può essere un fatto casuale”); un omaggio all'autrice de La mia Africa e di Ehrengard, senza dubbio, oltre che all'idea dello stile e della donna che Capote ha coltivato con attenzione maniacale nel corso della sua vita, spesso facendo discutere di sé. Come giustamente ha scritto Graziella Pulce in una sua recensione di Ritratti e osservazioni apparsa su Alias (Il Manifesto), "vale per la scrittura quello che [Capote] attribuisce alle donne: il fascino non è un dato naturale, ma il premio di un lavoro metodico. Capacità di osservazione, pettegolezzi e maldicenze non sono sufficienti a costruire uno scrittore e qui un'architettura di forze bilanciate va a riempire tutto lo spazio narrativo. Non ci sono interiorità in cui frugare perché ogni cosa è ben visibile e raccontabile. Basta trovare 'musica' giusta e i 'camaleonti' accorrono, come in uno dei suoi racconti più celebri e più riusciti".
Non sorprende di trovare, al fondo della lunga panoramica di volti e di storie che danno l'impressione di un baule segreto finalmente rivelato, un autoritratto di Capote scritto da lui stesso, pubblicato nel '72. E' un autoritratto in forma di intervista, lezioso quanto basta, e le domande spaziano sui più svariati argomenti. Un vecchio filosofo ha detto che ciò che muove il genere umano è la paura; alla domanda “Che cosa la spaventa?” Capote risponde: “Il pensiero di poter perdere il mio senso dell’umorismo. Di diventare una mente senz’anima, di avviarmi giù per il sentiero che conduce alla pazzia e quindi, come dice quell’enigma Zen, passare il resto di una vita distrutta ad ascoltare il suono di una sola mano che applaude”.
Versione rivista il 08/11/2010
©Alessandro De Caro
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