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La via Gironiana - Al Grande Maestro, Febo Galonzi

Considerazioni scritte da matris seguendo le vie catartiche dell’illuminazione senza fio ne bolletta, in una notte di mezza estate in casa zagata di borgo ciodo.
Le auree parole sono state indotte al mio orecchio nel mezzo della fase ascetico riposante del grande Maestro. Sottoesposta troverete una esemplificazione del suo pensiero in termini mistico poetici.
 
 
Possibilità
di entrare in farmacia
Il dardo il radeccio ed il pomodorin
E adesso quando
100
200
Mi fa sempre più piacere la famiglia
Quando un giornooo!!
Taglio il filo son uno fora
Taglia e piega
Bastieme
Fame dormir qua
A casa non dormo
Me ciapa ben
Sulle careghe
 
 
"GALONZI"
 
 
 
 
Al Grande Maestro, Febo Galonzi
 
 
 
Catarsi è la vena poetica imparata da Galonzi nella sua altissima e privilegiata illuminazione,
non semplificazione massima della realtà circostante, rotonda e piegata in curva che si protrae ogni qualvolta si spinga il passo oltre la linea di pura e venerabile demarcazione del sapere.
Il Galonzi estrae dal suo parlottare bofonchiato pillole di saggezza e le porge perché siano colte e fatte proprie.
L’inconcludenza apparente, del suo eterno peregrinare da un bar all’altro in cerca del segno che dal suo apparire, agli occhi estasiati del grande maestro, disegna un progetto di sicurezza mirabolante. Volutamente ingenuo ma frizzante il suo divenire poetico, traducendo in monosillabi inossidabili indeflessi e malleabili al tempo stesso, pietre filosofali di arcana provenienza, estratti dal karma “gironiano” e dati al vento che li porti via.
Ascoltandolo si può finalmente asserire di aver raccolto il senso dell’infinito emergente, tracollante, tracimante gotto di vino rosso, o rozzo, come preferisce bonariamente darci a bere l’illuminato. Il biasimo entra nelle nostre cervella e non ne esce più se arridiamo scevri di intelletto al suo canto e per contraltare, amichevole e coinvolgente arriva la pacca sulle spalle, sugosa come una padella piena di fagioli e cotiche, messicane, anche le cotiche. Il sole sorge fino a non voler mai scendere oltre quell’orizzonte che il sentimento “gironiano” espande oltre, otre, otre.
La curva è gialloblù e l’orizzonte è uno scudetto, rinchiuso in un simbolo di forza e coraggio, ardore temperanza e calma interiore espressa a 10 decibel sopra la scala reale, attaccato orgogliosamente al petto, dalla parte del cuore, tutto ciò esalta gli animi.
Nel generoso approccio iniziale di questa fragorosa ondata di parole, sale la tensione emotiva dalle sue previsioni, dediche lasciate sul marciapiede perché ognuno le calpesti e le porti via con se, il decifrarsi insostituibile di un immediato bisogno di farsi sentinella del malessere sociale, deviato dalla prefabbricata farmacia dispensatrice di falsi rimedi assecondati da una ricerca stracotta di economici vizi. L’attesa e la possibilità che ci diamo per entrare in simbiosi con il nostro s-caimano urbano, quasi una predestinazione obbligata di impattare nelle maglie del sistema. Sciamano il suo ardire, impatta con il nostro “normale sentire” la stessa ipotesi reale. Tutti abbiamo pensato la stessa frase, per tutti prima o poi è stato il momento di estrarre questa parola dalla bocca vanesia. ma il terribile sentore che il Maestro impara, è il crisma del discorso, è l’inverosimile somiglianza alla lingua di tutti noi, non solo Italiani in Italia, ma uomini venuti da ogni dove, possono tradurre le sue parole in quella lingua interiore che è il fuoco sacro della nostra cultura dell’accoglienza.
 
Chiunque si sia posto la stessa domanda, affermazione e problematica drammatica esplicazione di questa frase è “Giron”, quindi tutto tondo, pensiero espanso e sacralità del gesto. Chiunque è
“Giron” può essere chiamato “Girin”, per la dovuta discendenza accertata all’anagrafe del suo barricato liquore, memore delle sue gesta. Canti di piena, i famosi canti di piena, per chi li ha vissuti e apprezzati resteranno memorie serigrafate nel pensiero.
 
 
“Il dardo il radeccio ed il pomodorin”.
 
 
Qui il poeta arride alle parole e sciabola via tre sentenze inumane, quasi transgeniche per la loro predizione, mai tardiva, ma dovuta e sapida di fresco sapore mediterraneo.
Qui molti si fermano a cercare di individuare le molteplici vie a cui riporta la frase che è tutto un programma.. Il dardo… escluso dalla ambientazione vegetale, lascia un attimo con il fiato in sospeso, e per la verità anche per molto più tempo. Il segno ed il centro, la fenditura che solca l’aria che l’apre al volere del suo arciere, la necessaria traiettoria curva, che discende per la medesima legge che premia la velocità della terra che Giron-zola vorticosamente su se stessa.
Il Giron cede al suo pessimismo cosmico e trascende in una allegoria della vita che si improvvisa angelica e demoniaca al tempo stesso. Quell’adesso che non è più ora; Che non è, ma è! Che svincola da ogni possibile interpretazione umana, ma non “Gironiana” come già il tempo circolare e rotondo, dato come assodato dalla visione stupefacente e spericolata.
Il tempo che macina se stesso, che è finito ed infinito vivente, lasciato partoriente di altro tempo.
Il sogno di attendere e di non arrivare mai, il sospiro di un istante rubato all’attimo che è già passato ma non arriva mai.
 
 
“Taglio il filo son uno fora
Taglia e piega
Bastieme”
 
 
Taglia il filo della sua esistenza, recide quel cordone ombelicale che l’ha sempre legato alla vita esistenzialmente vissuta come su una barca a motore che va a tutta a manetta sul Progno della Valpantena. La rotonda, deriva di quella metafora della vita circolare, il nascere ed il morire l’arrivo che si fa partenza.
Medesime entrambe, la circolarità della flessione della materia che si taglia e si piega a differenza ed uguaglianza, almeno nell’intento iniziale, di una verità circostante il nostro corpo, che continuamente viene dismessa, accantonata dal farsi vita reale ed impura tracotanza del nostro ego.
Galonzi ama la vita, e la protrae incuneandosi nel suo più recondito essere, l’amore prevale ed egocentrizza la sua visione circolare permettendo il privarci dal riconoscere in questa istanza, un processo di amore universale, trapassato ad un divenire ignoto e solitario. La scelta si fa ardua quando il taglio netto recide la possibilità di compenetrare l’essenza del discorso celato. La sicurezza che impongono le sue decise parole, spiazza e non consolatrice del futuro che ci attende dietro l’angolo.
 
“Bastieme”
 
Lapidaria ammonizione al degrado dell’essere umano. Disumana visione apocalittica, spergiuro Divino, recalcitrante realtà di simbiosi che con il perdurare del tempo assedia il tempio dedicato al nome di Gesù Cristo e di suo Padre. Si sviluppa l’arcaico ingiurio alla forza della natura come alla necessità di avere bisogno di una valvola di sfogo che deturpi l’aere circostante da quella polluzione esecrabile quanto liberatrice di volgare vagito.
Il sangue è fatto sciogliere al calore bruciante di un calvario di vita esacerbato dal susseguirsi delle pressioni e delle fatiche da sopportare. Il fio è pagato, l’analisi conclusiva beffarda e paga di ogni ingiuria ricalca la medesima sostanza proiettandola all’ecatombe della parola alla sofferente sovraumana catarsi .
 
“Fame dormir qua
A casa non dormo
Me ciapa ben
Sulle careghe”
 
Errabondo individuo che transiti al viatico pregno del tuo destino, arridi allo spazio tempo che avvolge come una crisalide il tuo corpo stanco. Sonora disfatta materiale, è giunto il tempo di varcare la soglia ed entrare nel regno di Morfeo veleggiando su legni sicuri. Il circuito inoltra il denso corpo nella dimensione onirica fattasi umile al suo apparire. Il Maestro osserva i suoi allievi seduto su una sedia, è un dato di fatto, il circolo si apre alla folla per altre vie.
Il tacito accordo spazio temporale investe le quattro mura che lo accolgono umili e dignitose, l’aere assale compostamene il gorgo del suo respiro e fattasi vita, fuoriesce santificata a benedizione ed alito di rigenerata esistenza a quanti gli fanno cerchio intorno.
La musicalità che fuoriesce dalla chiusa strepitosa, è il sigillo di una vita passata in simbiotica armonia con le careghe del bar, assonanza della vitalità ontologica del “sedere” appoggiato saldamente alla sedia, umile trono di chi alla vita dinamica e grintosa del fare, aggiunge il conforto del riposare.
La vernacolare  veronesità assolta attraverso le sue parole, che prendendo forma, sentenziano, dimostra ampiamente la volontà di assumersi la completa disponibilità all’integrarsi attraverso idiomi verosimilmente locali, per non apparire complice alle varie situazioni discriminanti le necessarie usanze folkloristiche in auge.
Il peso di questo lascito all’umanità è evidente a chiunque si avvicini ad una lettura che intenda evidenziare quanto il Maestro sta facendo per l’umanità in termini di profonda analisi dell’animo umano e rivelazione della via da seguire per non andare mai fuori rotta.
Al fin non ci resta che aggiungere uniti ad un grido di gaudio “ GRAZIE MAESTRO”, illuminaci ed accompagnaci sempre nel nostro continuo peregrinare nei bar e nei ritrovi di questa terra, Grazie Giron.
 
 
 
                                                                                                                                                                                                                               Scritta da “matris” 25 aprile 2010 .h. 04.30

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a cura di Ezio Falcomer

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