Ferdinando Giordano [Gil] | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Ferdinando Giordano [Gil]

 
Biografia

Ho già un’età indecente; forse qualcosa in meno, calcolando l’anno da passare, per pensare d’essere ciò che avrei voluto diventare: uno così, all’anagrafe dei postini, non compare e mi dispiace. Avrei voluto essere raccomandato e non lo sono! Ordinario, pensereste; ordinatamente rispondo: sì! Non vi tratterrò a lungo: a lungo amereste essere altrove, lo so, ma è giusto spiegarsi prima per potersi ripiegare poi… E’ ciò che sto facendo e lo dico ai più distanti! Cioè a quelli meno attenti: al cane, agl’inciampi, alle dimenticanze, alle ricorrenze. Dirò col poeta, che non sono io, ma del quale scrivo ogni turbamento e le poche assonanze: “nacqui come tutti e come ognuno ne fui certo solo dopo un rapido consulto con le mie membra, non mi piacevo ed urlai. Degli astanti qualcuno pianse e qualcun altro rise: nessuno capì bene perché, ma tutti si diedero un gran da fare per raccontarlo.” Il luogo era, e dovrebbe ancora essere, Cetara, sulla divina costa d’Amalfi. Cinquantatre anni fa ed ancora continua a Salerno, dove lavoro nel settore dell’assistenza informatica e nella formazione. Varia fu la giovinezza e glabra d’onori, come pur’anco la maturità e similmente la vecchiaia incipiente. A qualcuno verrebbe in mente che è una vita inutile! Risponderò che di inutile in vita c’è ben poco, tranne la morte che spero di evitare nel secolo in corso: poi si vedrà… Ho vissuto per lo sport con sportività, quindi nessun risultato notevole. Ho vissuto per il divertimento spassandomela quindi niente di serio ho raggiunto. Ho vissuto per studiare ottenendo una laurea summa cum laude in Ignoranza Integrata all’Apparire Sapiente. Ho vissuto per scrivere consumando carta negli astucci delle Bic come cerbottane. Ho vissuto per lavorare avendo come obiettivo un’unica grande vacanza nella quale ancora mi crogiolo. Insomma, ho vissuto e vivo ancora a discapito dell’ovvio, ma - ovvio - questo finirà prima o poi, sperando poi. Sarei giornalista - pubblicista - se nonostante gli articoli pubblicati fossi riuscito a presentare un esame decente e ricevere una sedia girevole in una redazione decente, ancorché locale. Sarei editore se dagli oltre cinquanta numeri di mensile da me editi avessi tratto quanto basta per continuare. Sarei grafico pubblicitario se di tutta la comunicazione esterna ed interna realizzata fossi riuscito a comunicare ai committenti il giusto prezzo da pagare. Sarei un formatore se nei trent’anni passati a formare dagli analfabeti ai dottori mi fossi conformato all’insegnamento. Sarei un animatore radiofonico - lei, in perfetto inglese direbbe speaker - se nei ventiquattro anni trascorsi ad animare “on air” non fossi caduto malamente da quei voli. Ed invece, Egregio giunto fin qui, ho l’onore di annunciarti che sono ben poco e quel poco è: padre, sposo, genero e…! Come dire: paradiso, purgatorio, inferno e… limbo. Ah sì, una cosa buona c’è: sono interista ottimista.
 

 
Recensione
Nel leggere i componimenti di Ferdinando Giordano s'intuisce senza ombra di dubbio che la sua poetica è ricca di spessore. Da qui, pertanto, il mio lieve imbarazzo nel scegliere le poesie che meglio lo rappresentassero nel suo proporsi a tondo, anche perché, per la verità, in ogni sua composizione c'è lo spunto del verseggiatore attento e profondo. Detto ciò, in questo florilegio poetico da me modestamente scelto si potranno riscontrare tutte le simbologie di un animo pienamente rivolto al gesto lirico inteso nel suo significato più ampio e veritiero. Ed è proprio nel suo scorrere veloce attraverso l'animo della poesia che si ritrova l'originalità del suo comporre, si avverte la ricerca quasi scientifica del linguaggio atto a produrre sempre un alchimia tra messaggio e atmosfera evocativa...Il suo poetare, oscuro ma solo all'apparenza, si bilica con grande equilibrio tra slanci passionali, sorretti da metafore articolate saggiamente, e trame linguistiche ben dosate, per poi sfociare comprensibilmente in gesti eligiaci di gran esito. In "In vita", "Tutto muta a guardare da fermi", "So di me come discesa la terra" e "Solo mia sarà la visione", infatti, questa sua abilità si espleta come un rio d'acqua alpestre che nasce da una piccola fonte e, durante il tragitto lungo il mare ampliandosi di forza trascinante, diventa flusso energico e dirompente...Così, per certe valenze, il flusso poetico di Giordano appare denso, s'adagia su trame tessute con oculatezza e visione dialettica infusa di nostalgica tristezza, quasi se il gesto autentico di un sorriso, un bacio o, più ampiamente, di una considerazione possano aprire quegli spazi ricchi di sensazioni al lettore. E in "Non chiederei, ora, del tuo sesso un chi", tutto ciò s'amplifica portando il messaggio ad uno stadio introspettivo:
 

Avevi un corpo a nido d’anima,
un alveare di raccolta;
industriavano i pensieri un miele denso
sul giglio alto della coscia,
aperto al golfo delle labbra,
al sapore di talune bucce
amare (...)

 

come si legge tra le pieghe di un costrutto ricercato questo incipit è carico di forza dirompente, l'immagine dell'alveare a nido d'anima, simbolicamente, fuoriesce svettando su livelli elevati proponendosi come una sequenza, seppur semplice nei lemmi, forte dal punto di vista interiore...Il corpo dell'amata diventa natura rigogliosa e desiderio carnale, diviene passaggio di pensiero quasi osceno ...e ancora più avanti si rincara la dose:

 

(...) Quindi ti visitai
col passo delle processioni. Interno alla navata dei tuoi seni
il cuore stava cupo: nemmeno un cenno di respiro,
quasi un traguardo l’iride
- come in ogni sguardo basso - si presenta al dolore:
così ti nacque la partenza.

 

e i versi qui diventano più riflessivi, meno spudorati, quasi si volesse giustificare per l'audacia del gesto celato da un verbo così esplicito [ visitai ] e nel verso seguente c'è appunto la precisazione...Sembra ricordarsi avvertendo il lettore che la sua visita, poco importa se reale o auspicabile, è stata fatta con il passo usato nelle processioni, sicuramente pesante, rispettoso, lacerante e lento ma pur sempre voglioso di lei. Come si può notare, l'amore verseggiato da Giordano non è mai sdolcinato, mieloso, patetico e consueto, cerca quasi sempre di filtrarlo attraverso una lente spesso ironica e spettrografica, in cui ogni sentimento è reso originalmente e in "Quindi, vai" se ne ha un forte sentore:

 

Che cosa conduce
le frange del tuo costato alle brume della strada?

Il commiato

espone l’assenza negli spazi ritrovati,
quando rapido perderti è cruccio delle grucce sul cuore:
la breve gonna ruotata alla zip per lo sguardo; il foulard
nell’incavo di misura; la misura stessa che attrae sui tuoi seni
- quel latte insito di tutta l’acqua che mi bisogna -
mai compiutamente in fiore.

Quindi vai, esterna ai miei polsi

e resto trancio dei tuoi occhi:
con le monche dita della rabbia spingo
la notte alla semiotica dei fanali sparsi
nelle tue orme.

La città si muove, ha gambe tue:
percorsi lisci che avvampano la piazza
col suo governo d’ansie

per farmi insonne.
Chissà perché sempre al tramonto.
Chissà a chi questa deprimente ora.

 

versi questi, come si può ben notare, altamente simbolici, dove il desiderio si fa tratteggio e la cura del particolare riempe la scena: il cruccio delle grucce sul cuore, la gonna, la zip, il foulard e il seno giocano insieme nell'immagine come pedine mosse ad arte, per sfociare infine nella metafora dell'abbeveramento, che introduce lo scoramento del commiato...Un concetto d'amore sofferto, legato al compimento come prova di coraggio e il tutto posto come un percorso lungo e travagliato, ma proprio per questo ammaliante e vissuto con trasporto. Il Giordano sembrerebbe dire..."Guardate che la poesia, oltre essere ricerca del nuovo, è sofferenza, travalicamento del superfluo, è un passaggio attraverso l'animo". E in "A mio padre, sulla costa d'Amalfi", se ne ha un'ulteriore conferma...

 

Padre, questa sera non ti cerco a caso,
sono il solo figlio della mia nostalgia:
ero di fianco al vecchio Saracino
che sulla costa anticipa le nuvole
e dorme da secoli sul mare
ho tracciato sulla roccia il mio regno
e fissato quattro pertiche sugli angoli
poi con gli occhi le ho alzate fino al cielo
e più su per raggiungerti e pregare

ho disteso il mio corpo in appendice
e chiesto di dormire insieme a te.

 

qui l'amore della propria terra s'arricchisce della figura del padre e il componimento, tra le pieghe cariche di ricordi e zone a lui molto care, diventa una preghiera accorata per una persona che non c'è più ma che ancora presente nel suo cuore. La chiosa è un tentativo o, meglio, una speranza di lenire in qualche modo la mancanza fisica del genitore, quasi se dirselo, in qualche modo, potesse avvicinarsi ancora a lui. Potrebbe apparire come una disillusione, ma nel scopo primariamente poetico non lo è affatto, perché i ricordi possiedono una valenza terapeutica e l'autore di ciò n'è consapevole e vuole trasmettercelo.
In "Obiezioni agli aerei" e "Formiche in chiusa", invece, si riscopre l'ironia razionale dell'artisticità del campano.

 

Oggi tutti sanno
che non parlai male degli aerei
né a quei tafani del greggio
né alle bussole dei semi volanti,

epperò,

occorre che io ricordi
che non hanno ali adatte al cemento
così non si potranno muri portati
né scale o cortili
per abitare il cielo oggidì:

nessuno corre scalzo sopra i cirri
sottraendosi alla terra

a ridersi mentre cade.

 

In questa poesia, oltre a puntare il dito sul progresso simboleggiato dall'aereo, Giordano con cipiglio scanzonato, quasi provocatorio, ribadisce nemmeno tanto velatamente che la terra, più volte calpestata da piedi incuranti e incoscienti, sta per esplodere. E' un gemito preoccupato. E' un monito al gregge del mondo...Con immagini irrisorie si vuole celare un destino al quale non ci sarà soluzione se non si porrà rimedio. E il verso finale ne traccia la forza e l'ironia lucida...
Mentre, nei versi che seguono l'autore lancia un altro tema, forse più prosaico ma non meno importante...

 

Quando il peso del frutto spiegò il concetto della leva
di terzo genere - si badi - del terzo genere
noi tutti dal suolo esclamammo: oh!
finalmente si capisce il profilo del pianoro,
laddove si poggia il fiume
e piega la luce
il sonno.

Speculammo sull’ipotesi che tutto abbia un senso,
prima che il vomere annudasse larve
schiumandoci ai bordi;
qualcuno pronunciò: si è fatto tardi per sapere;
così noi

.

 

qui, infatti, il protagonista è il popolo delle formiche, che per trasposizione può paragonarsi al genere umano. Abilità e capacità di sintesi in questi fulminei versi: traspare lo sconcerto del popolo sotterraneo quando, atraverso una semplice leva, l'uomo avvia le operazioni agricole. Lo stupore degli imenotteri nello scoprire che la terra è abitata da altri esseri oltre loro è grande, ma è ancora, più amplificato quando si rendono conto d'essere indifesi verso quella razza che, per esigenze personali e di sopravvivenza, è pronta a distruggere tutto. Non c'è nulla che si può fare per opporre resistenza all'imminente distruzione e il verso chiave è proprio quello in cui il vomere affondando mette a nudo la debolezza delle larve E' ovviamente un paradosso, portato all'estremo, in cui il gioco delle parti è impari ma, nella sua crudezza, riporta a galla quell'esigenza di trovare la misura nei rapporti, qualsiasi essi siano...
In conclusione, per dirla con le sue parole: "Dirò col poeta, che non sono io, ma del quale scrivo ogni turbamento e le poche assonanze: nacqui come tutti e come ognuno ne fui certo solo dopo un rapido consulto con le mie membra, non mi piacevo ed urlai. Degli astanti qualcuno pianse e qualcun altro rise: nessuno capì bene perché, ma tutti si diedero un gran da fare per raccontarlo.”. Ed proprio il senso di queste righe che ci dà la misura dell'artisticità di Giordano, quel suo prendersi in giro con ironia intelligente, quella sua conoscenza della vita così disincantata, quel suo stupire e stupirsi su accadimenti reali che ci accumunano un po' tutti, quella sua irrefrenabile voglia di conoscere fanno di lui poeta e penna abile e originale.

Francesco Anelli
 
 
Dimmi di me
 
Tacciami di aver deluso i guadi
che non attraversai.
E di tutti i ponti la prima spalla
solo accarezzata quand’era appena un limo
il coraggio.
 
Tacciami della viltà del giunco
piegato alla corrente,
di quella persa opposizione al gorgo,
delle rotazioni in fibra di lamenti.
 
Tacciami muovendo cauta gli zigomi:
l’urlo dimena fruste ed io temo la sua gabbia.
 
Eppure sento la gola matura
quando mi espongo.
 
 
La domenica del lago
 
C’è già qualcosa che nasce a pelle del monte.
Furono altre zolle, e saranno di coscienza.
 
La confraternita delle piante si ravviva:
nessuna aveva ombre, e vanno folla al sole per la loro striminzita aurora;
ma il rumore del rotolamento era quello;
come quando rovescia il petto ampio una roccia
e coglie meraviglia di tenerezza ai lombrichi nuovi.
 
Erano il ventre della sassaia. La sua tenia angusta.
Non ce l’avrebbero fatta a sollevarla da sola,
la vita che si fa all’oscuro della chiara sorte trovata: animale e curva.
E nemmeno avremmo voluto fosse così.
 
C’è fretta ovunque e sottoterra i semi smagliano
la loro coperta. Sembra non manchi niente.
 
La neve scioglie il suo pensiero d’acqua e corre, inventa pozze di riposo:
non vedo muscoli perché qui non servono.
I liquidi si liberano dalle trappole solide: lo fanno senza sforzo:
perché non noi? Succederà una volta, una soltanto!, e non sapremo.
Potesse essere qui, tra me e il mandorlo: il mandorlo gemma ancora. Avverrà così:
il rombo delle braccia lungo gli argini del corpo,
la loro frattura in miriadi di puntute scaglie
infisse dal pensiero stesso alla schiera delle costole
senza doverci essere a principio un fondo di dolore.
 
I suoi rostri balordi, del ghiaccio - dico - ma non solo: scivoli, ma di che ti lamenti? Non sente l’erba con la gola umida.
Va alterna, va per gaudio agli alpeggi.
 
C’è un’unica via: un uomo muove un’ombra, e sono io
che introito vita
da spendere in città.
 
 
 
Come tra i panni spogli
 
Tornerà la triplice arsura di mistral
giù per gl’intonaci di sabbia
sui dorsi dei delfini e nelle gole dei gabbiani.
 
Sarà gobba la rotta inamovibile
per i flussi del nome perso: che gran bere ai ritorni sulle labbra del migrante,
restituito allo stomaco della città, diseredata dalla coppia
torrida.
 
- Riavrò il tuo sorbetto al limone?
Vai a saperlo tra le guglie della folla!
 
Mi muovo tra grisaglie di vetrine
trapassato dall’estoque di febbraio - in ricorrenza al cuore -
con la mancata forza
 
del tuo corpo
 
che non trattiene furia
sulle vernici
come tra i panni spogli.
 
 
 
Per una donna e mai più.
 
Non vive poiché non morì, come s’intende la pioggia,
solo fu attratta altrove.
 
La vedevo andare ai sacramenti
sulla corsia della quaresima
- in auge i suoi tremori -
portando calibri esatti di passione.
 
Fu una matassa di passi, su tutti i sentieri che andavano dalle rotule ai sogni:
un colpo vero al peso che costò alla terra
una quercia di un secolo scorso;
uno spartiacque a valle, patendo grovigli e inghippi di fretta,
per quell’invaso che trasudò fili come idee
a farmi uomo a stenti.
 
Seppe stare ferma quando l’organo zittì la voce:
tese la mano sul ronzio del mio lamento
e vi lasciò un silenzio semplice
 
ssssst…
 
come ancora mostra la bocca.
 
 
Liturgia dell’ombra portata.
 
Triste la nera di riporto
che muta per gli appoggi.
S’allunga o si spezza nei piani
ad uno sguardo retto li mantiene
ad angolo
ad aversi un futile turgore d’asse.
 
Nera la triste cade di colpo
sfuggita al corpo
che sia o non sia vivente
appartiene all’origine
lo implica:
di simile ho saputo solo
gli dei
ma anche l’amore o l’odio.
 
Finché qui ed io
saremo qualcosa
sarà l’ultima a calare
 
di me nella calata luce.
   
   
Prima della sera
 
Lei, lui.
 
Il muro contiene radici e pietraia.
Forse è più secco il suo cuore che il sole nella vasca.
 
Le serpi origliano passi ma trovano l’ombra delle cicale,
che non basta, anzi le arrabbia.
 
Niente di più ci assiste declinando l’afa al fresco.
Niente ci coinvolge meno delle radici esposte.
 
Tra di loro scaviamo una tana di corpi
per le nostre fluide carezze.
 
Siamo complici dei rami e reggiamo foglie di calma
quasi fossero porzioni di pause.
 
Se cadi ora,
come una pesca satura di mezzogiorno
avrai dimora nella mia fame.
 
Se ti lasci baciare, amor mio,
sarò dimora delle tue stelle
mentre le accendo.
   
   
Sul faro.
 
In questo semplice rubarti una smorfia, il volto si dà tregua
quasi àncora
non ormeggiasse l’uomo ch’è venuto a dirti andiamo!
 
Si direbbe di queste onde un caldo abbraccio
di sottane in punto alle ginocchia
come gli avambracci della luna sulle tibie della sera
oppure passi accorti oltre la soglia
del molo acquartierati nei frangenti del mattino spoglio.
 
Amarti era amarti ancora
benché nel disdegno del rancore il tuo nome
rappresentasse una seduta
uno sbarco un luogo
puoi dire un richiamo teso ai glutei per quella forza asciutta
delle aderenze.
 
Amarti ancora, lo so, era amarti prima
ma non ebbi fondo
per attese congrue ai tuoi voli.
Però poi ad un gabbiano in cova o forse in pagina di cielo:
 
guarda, un gesto di vento coglie il mare alla fonda
c’è la risacca persa sui bordi
ancora.
   
   
Spegnendo un lume, un salto di luce.
 
Ai recinti delle meridiane rubo ombra
e sugli intonaci dei campanili
i rintocchi spettinano crepe a ciocche:
qui compongo a labbra
i batocchi del tuo seno sonoro.
 
Tu sei la schiena di quel duro colle che s’anticipa
nel valico di una lontananza incerta
ma se avanzo a dita aperte negli avvalli
opponi castità melliflue
a guizzi di vocali intense.
 
E fermi l’uscio al chiuso.
 
Dammi una ruga che mi danzi intorno
sulla tua esile scorza un raggrinzire vacuo
mi accora
ma pattino ruotando i polsi
perché il palmo colga la lanugine istigata a guardia
di ogni attesa di percorso.
 
O di timore.
 
Cosa,
per questa fuga che ti attardo?
 
Sei tino di fragranza
spillato a goccia:
 
rade al punto che nessuno schiocco di castagne al fuoco
provocò salive tanto liquide alla bocca.
 
E come vino solido rafforza
ad ogni primitiva piena il tino si accalora.
   
   
-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Autore di Rosso Venexiano: Ferdinando Giordano [Gil]
-Recensione: Francesco Anelli
-Editing: Anna De Vivo
 

ventitremarzoduemiladieci

 

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