Aspettava seduta al tavolino di un bar, là nell’angolo della piazzetta. Si era a fine agosto ma la morsa rovente del caldo non dava segni di cedimento.
Socchiudeva gli occhi stanca, snervata, più che impaziente; la sua abitudine stupida di arrivare con una buona mezz’ora di anticipo ad ogni appuntamento, il vizio ostinato di lui che in ogni occasione doveva farsi attendere.
Così era rimasta intrappolata dentro quella giornata, dentro quel tempo, quasi incatenata a quel tavolino, obbligata a pensare a ciò che era prima, a quello che sarebbe stato poi.
Si sistemò meccanicamente la gonna, sfiorando involontariamente il ventre, avvertendo subito un senso di disagio. Cercò di mandarlo via, di ignorarlo, ma l’attesa esasperava ogni sensazione.
Il suo corpo dorato, armonioso, intatto fino a poco tempo prima, l’aveva tradita.
Quel corpo non era più il suo … dentro era cavo, dentro non c’era più un utero ad accogliere, dentro era solo un qualcosa d’informe e fuori, fuori era segnato da tre piccole orrende cicatrici rosse.
“Sono fortunata” cercava di dirsi “E’ questione di tempo e i segni saranno quasi invisibili”.
Le nuove tecniche meno invasive permettevano un recupero più veloce, lasciavano tracce meno evidenti, poi tutto sarebbe stato quasi come prima. Di figli non ne aveva mai voluti, in ogni caso aveva quarantatré anni ed era già piuttosto tardi, quell’operazione necessaria le aveva evitato conseguenze ben più pericolose e spiacevoli. Bastava solo avere pazienza e tutto sarebbe ripreso normalmente.
Eppure… eppure qualcosa si era incrinato nel rapporto col suo corpo
E poi qual era il suo corpo?
Quello che in ospedale veniva maneggiato come una cosa che non apparteneva a nessuno, quello che veniva spogliato, lavato, inciso, bucato con asettica precisione, quello che lei stessa in quei pochi giorni di ricovero aveva guardato da distanze infinite, quello che pretendeva solo di respirare, mangiare, camminare, indifferente a tutto il resto?
O quello che lei ricordava e rimpiangeva, non molto diverso da adesso, eppure altro, in modo irriducibile, un corpo che giocava in vestiti di seta e trasparenze, un corpo che si addolciva in gesti quasi materni, un corpo che avrebbe ancora potuto, volendo?
Chissà magari era ancora quello che si faceva piccino piccino, quello solitario da brutto anatroccolo che l’aveva fatta disperare durante l’adolescenza e ogni tanto faceva capolino dallo specchio aumentando le sue insicurezze.
Forse, invece, era semplicemente quello che lui desiderava e che avrebbe continuato ad apprezzare anche adesso, nonostante tutto.
“Insomma, quanti corpi può avere una donna? E quali possono essere amati? E che passaggio c’è dal corpo all’anima, dall’anima al corpo?”.
Questo si chiedeva, mentre lo aspettava, non trovando una risposta, dentro quel giorno afoso, esasperante, implacabile di fine agosto.
Miresol
Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
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