Tu non esisti Liliana, sei una donna di carta, un personaggio che fluttua nell’aria in attesa di prendere carne. Ma ora ti ho fermato e sto qui a guardarti da quest’angolo di stanza, mentre ti affacci alla finestra. È difficile regalare un volto a chi ti dà di spalle anche se posso sentire i tuoi pensieri. Impossibile avvicinarmi a te, farti una carezza, la tua solitudine mi assomiglia talmente che non so più ridistribuire le parti, riprendermi quello che è mio, togliere dalla tua immagine la patina stanca dei miei anni.
Liliana, nata il 25 Aprile del 1960, tra la memoria ancora viva di una guerra e il tempo nuovo che doveva venire. Fame: una parola che ti ripeteva spesso tuo padre, cresciuto in montagna, in una di quelle valli che conobbero i bombardamenti degli Alleati, le azioni dei partigiani i rastrellamenti dei Tedeschi.
“La fame non ha discorsi, è un groppo in gola, è strappare l’erba alle terra per riempirsi la pancia, mangiar castagne crude e acerbe fino quasi a morirne, addentare un cuscino di notte pensandolo pane”. E tu ascoltavi, la storia ti entrava nella pelle, l’assorbivi dagli occhi di chi raccontava, diventava tua per quanto possibile. Ma i tempi erano cambiati, già si respirava quel primo benessere che prendeva nome di oggetti concreti: la radio in cucina, il telefono grigio a metà corridoio, la televisione in bianco e nero, la seicento beige col suo portapacchi per l’estate in montagna, non molto lontano dai luoghi dove aveva patito tuo padre.
L’accumulo delle cose era solo agli inizi, aveva ancora un sapore di riscatto, l’ingenuità della scoperta. Eppure di lì a poco avresti contestato quella condizione piccolo borghese raggiunta con tanta fatica dai tuoi genitori, figli di contadini, consapevoli di quanto dura possa essere la terra. Fu naturale per te ribellarti, con quella crudeltà inconsapevole che le nuove generazioni hanno verso chi le ha precedute e in quell’opposizione buttasti via il buono e il cattivo: convinzioni religiose troppo opprimenti, la rigidità di una scuola troppo autoritaria, una morale sessuale retriva e bigotta, ma anche l’esperienza di chi era venuto al mondo prima di te e che allora non avresti potuto accettare.
Solo il 25 Aprile tu e tuo padre vi trovavate uniti: lui a ricordare, tu invece a rincorrere vaghe idee di rivoluzione, il vostro pensiero in fondo era vicino e avreste potuto darvi la mano, ma a vent’anni era arrivata l’ora di andare, di lasciarsi alle spalle tutto o di credere possibile il farlo.
Che dire di quello che c’è stato poi? Per ognuno arriva il tempo lento della costruzione, delle piccole vittorie sottaciute e delle sconfitte che pesano sulle spalle: non so se hai più amato o più dubitato, di certo alla fine hai scelto di rimanere da sola.
E in questo 25 Aprile di bandiere confuse, dove tutto sembra essere al tempo stesso vero o falso, in questo macinare inutile di parole, nella memoria ormai appannata di un conflitto, nell’accumularsi di oggetti già vecchi oggi pur essendo nati ieri, tu ripensi a tuo padre e a quelle semplici parole “ La fame non ha discorsi, è un groppo in gola”. Come l’amore, quando non viene detto.
Non girarti Liliana, non voglio incontrare il tuo volto, io adesso me ne vado. Ecco, chiudo la porta.
Miresol
Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Testo selezionato da Francesco Anelli
-Editing: Alexis
-Racconto di Miresol
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