La valigia rossa
Per anni sono stata custodita in una campana di vetro. Per anni ho tenuto stretto nel pugno della mano destra un brandello di pelle rossa.
Mi rendo perfettamente conto che c'era qualcosa in me che all'epoca non andava bene. Vivevo in un albergo alla periferia di Pensiero, una città allungata sul mare che aveva alle spalle una catena montuosa che scendeva a picco sulla strada di Pinta.
Eravamo in tredici nell'albergo; sette ospiti e cinque inservienti. Io ero la tredicesima e passavo la mia giornata a guardare quella massa di
carne umana che alitava sui vetri della mia campana.
Dal davanzale della finestra dove avevano scavato le fondamenta della mia sferica casetta, potevo contemplare un mondo trasparente come l'acqua mentre il tempo volava insieme al bianco che invadeva il cielo.
Il mio occhio quadrato aveva avversione per tutto quello che riusciva a immaginare di un mondo in cui il buio era solo emanazione mentale.
Spesso dovevo chiudere gli occhi per ricordare il colore dell'oscurità, quel colore fisico e freddo che bramavo in quei momenti di sole accecante e di labbra invadenti. Odiavo il fiato dei sette che variava di numero a seconda del periodo dell'anno. Mi consideravo comunque una donna felice. Quanta pena per quei corpi sudati. L'orrore mi prendeva solo a pensare alla puzza che poteva infiltrarsi da una crepa sul vetro. Involontariamente di tanto in tanto il mare succhiava ossessivo aspettando di prendere ancora il corpo di una vittima perfetta. Ma non sempre c'erano vittime perfette da risucchiare. Nella maggioranza dei casi alla reception venivano accolte prenotazioni di persone banali che il mare risputava a riva e fu una di queste che raccolse un martello e colpì duramente la campana che mi aveva custodita da anni.
Non potete neppure immaginare cosa avvenne quando assaggiai il sale che si diffondeva nell'aria.
Mi librai nella mente e scappai. Sembravo una nuvola. Sembravo un soffio di vento. Mi fermai sulla strada allungata del non senso. Vidi un'insegna annerita dal fumo e lessi "Valigeria Ricordi". Scesi in picchiata e atterrai in un pugno di sabbia. La mia mano destra finalmente si aprì e potei osservare quel grumo di pelle.
Sapevo benissimo cosa dovevo fare. Entrai per comprare due valigie.
Il commesso mi squadrò dalla testa ai piedi quando chiesi una valigia di morbida pelle rossa. Sulla forma potevo accordarmi ma non volli sentire ragioni sul colore e sul materiale. Seppi così che la pelle era stata abolita e anche il rosso era un colore proibito. Mi diressi veloce verso una porta in fondo al negozio e l'aprii con violenza. Riconobbi tutte le mie valigie. Erano lì da troppo tempo. Quante lacrime persi quel giorno. No, non ero più una donna felice. Presi il mio bagaglio e volai fino alla stazione. Il primo uomo che incontrai aveva occhi di fiamma e non mi parve il caso di lasciarlo vagare tra un vagone e l'altro. Così lo sistemai per bene dentro la più piccola e l'abbandonai sul marciapiede.
Ora sono qui che guardo dall'alto tutto quello che succede. Non so bene da dove sia spuntata fuori la falce che ho al braccio sinistro e non so chi mi ha messo addosso quest'abito lungo e nero. So che nessuno mi ha sostituito in tutti questi anni e ho tanto lavoro da sbrigare. Devo raccogliere le mie forze e le mie valigie. So molto bene che il vuoto non sentirà la mia mancanza. Ero tornata ad essere come una farfalla immortale che vola di fiore in fiore, sempre a caccia di pollini nuovi. Spero solo di non incontrare di nuovo quel bambino che mi catturò e mi tenne prigioniera in una campana di vetro. Ora mi trovo sulla strada di Pinta, loro mi stanno aspettando e non basteranno queste valigie.
Farò due viaggi.
Raffaela Ruju
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