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Misure e dimensioni - Daniele Guido

I matematici condividono con i grammatici un gusto quasi maniacale per la precisione di linguaggio, incuranti del fatto che la loro precisione un po’ gergale pretenda di pronunciare monotòna con l’accento sulla terza “o”. 
Non potevo perciò mancare di apprezzare la pluralità cui il tema allude, anche se vedremo subito che non sempre pluralità è sintomo di dismisura.
 
Comincerò dunque col rimasticare l’evidenza di tale pluralità.
A parte le semplici regole che dicono che una iarda sono 0,9144 metri, o che ci vogliono 128 once fluide per fare un gallone, ci sono casi in cui la differenza di valutazione assume forme più complesse.
Prendiamo la ricetta della torta Saint Honoré. Ogni cuoco potrà assegnare a ciascuna tappa un tempo di esecuzione, fornendo un esempio di ciò che i matematici chiamano misura: assegnare un valore alle parti di un insieme dato, in modo tale che se suddividiamo una parte in sottocomponenti, il valore (o misura) della parte sia la somma delle misure delle componenti.
Di solito due cuochi diversi costruiranno due misure diverse sulla stessa ricetta, ma si tratterà di diversità comparabili. Se il primo cuoco impiega 20 minuti per preparare la pasta degli choux il secondo potrà impiegarne 10 o 30, ma mai zero. Tutto ciò che richiede tempo (che ha misura non nulla) per l’uno richiederà tempo, magari un po’ meno o un po’ di più, anche per l’altro. Due misure con questa proprietà (i matematici le chiamano assolutamente continue l’una rispetto all’altra) sono qualitativamente d’accordo su cosa conta e cosa no, ma non necessariamente quantitativamente d’accordo su quanto conta ciascuna parte.
 
Le semplici regole di trasformazione viste per le iarde o i galloni diventeranno equivalenze più complesse, come questa: per ottenere i tempi del secondo cuoco da quelli del primo, moltiplichiamo per tre il tempo per la pasta sfoglia, per uno e mezzo il tempo per la pasta degli choux e dividiamo per due (o moltiplichiamo per un mezzo) il tempo della crema pasticcera, eccetera. Ovvero, la seconda misura si ottiene dalla prima per opportuni fattori di scala o pesi relativi. Il fatto che tra due misure assolutamente continue esista sempre un peso relativo che permette di passare dall’una all’altra è un importante teorema nella teoria della misura, che prende il nome di teorema di Radon-Nikodim.
A questo punto potrete immaginare che cosa io voglia intendere per dismisura: una misura è “smisurata” rispetto ad un’altra se ci sono parti che contano qualcosa per l’una ma non contano niente per l’altra, ovvero se non ci sono fattori di scala che ci facciano passare dall’una all’altra.
Per un monogamo ad oltranza, ad esempio, solo l’amata conta e tutte le altre non contano niente, mentre il libertino, pur non disdegnando l’amata del monogamo, corteggia tra le altre la bella Mariella. Come esprimere il rapporto tra il discreto interesse che ha il libertino per Mariella e l’interesse nullo che ha per lei il monogamo?
Ma non sempre la dismisura nasce da soggettività esasperate o da punti di vista incnciliabili. La teroia di cui parlerò ora parte da un unico dato, cioè dalla possibilità di valutare la distanza fra due punti, producendo però misure completamente diverse e smisurate l’una rispetto all’altra. Questa teoria prende il nome di teoria geometrica della misura.
Introdurrò questa idea con una citazione classica di dismisura: “Io giuro per me stesso, afferma il Signore, […] che moltiplicherò tanto la tua progenie che sarà come […] l’arena che è sul lido del mare” (Genesi, 22, 13-17).
Il più semplice tipo di misura di un insieme è quello del numero di oggetti che contiene, ad esempio se l’insieme è quello degli studenti di una scuola, ad ogni sua parte, la sezione A, la II B, assegnamo il relativo numero di studenti.
A ben guardare, la misura del contare è in linea di principio sufficiente a descrivere tutta la realtà oggettiva, se accettiamo che tutto, persino la luce, sia composto di particelle elementari.
Eppure basta pensare ad una catena, ad esempio una di quelle usate per levare le ancore delle grandi navi, per capire che il contare è a volte inadeguato. Non che gli anelli della catena siano poi così tanti, tuttavia nessuno descriverebbe una catena tramite il numero dei suoi anelli, bensì tramite la sua lunghezza.
La dismisura arriva di soppiatto e senza clamori, potremmo contare gli anelli, ma immaginiamo subito catene di una data lunghezza fatte di anelli sempre più piccoli, fino a teorizzare una curva come composta da punti. Estremizzando la dismisura abbiamo reso insignificante l’individuo, quello che possiamo contare, ed inventato gli oggetti unidimensionali. In una curva ci sono infiniti punti.
Il percorso però non finisce qui. Immaginiamo di seguire, bustrofedicamente, è il caso di dirlo, il percorso di un antico aratro nel suo lavoro su un campo. La lunghezza complessiva del solco darà una misura abbastanza precisa dell’estensione del campo, eppure l’avvertito agricoltore ha sempre preferito usare misure di superficie come acri, are ed ettari per misurare le estensioni di terreno. Infatti, a confondere misura lineare e misura di superficie, si può incorrere nel celebre paradosso di Didone.
Narra Timeo da Tauromene che Erissa figlia del re di Tiro, detta Didone o l’errabonda, ottenne dai Libii di aver stanza coi suoi nella terra delimitata da una pelle bovina. Didone allora, tagliando un’ampia pelle in sottilissime strisce, recinse una altura che divenne la rocca di Cartagine.
Ecco cosa succede a sbagliare dimensione. Quanto è lunga la pelle di un montone? Se la dividiamo in striscioline potremo raggiungere una lunghezza ragguardevole, ma soprattutto, supponendo di poter ogni volta suddividere ogni strisciolina a metà nel senso della larghezza, potremmo renderla infinitamente lunga. D’altra parte questo corrisponde al fatto che una curva non ha spessore, quindi per quanto una curva sia lunga la sua area è comunque zero.
Il passo successivo è quello tra area e volume. Di nuovo, se proviamo a domandarci qual’è l’area de un cubo di metallo, incontriamo il fenomeno della dismisura. Sezionando il blocco in lamine molto sottili si potrà coprire una superficie molto grande, e se supporremo di poter dividere ogni lamina a metà nel senso dello spessore un numero illimitato di volte copriremo una superficie infinita. Di converso il volume di una superficie è zero, perché una superficie ha spessore nullo.
A questo punto ci rendiamo conto di quanta dismisura ci sia nella frase biblica, ove si paragona la progenie di Abramo, che si misura naturalmente contando, con la sabbia del mare, che si misura tramite il volume, ovvero la misura di dimensione tre.
Abbiamo dunque definito una gerarchia di misure, la misura del contare, di dimensione zero, la misura lineare, di dimensione uno, la misura di superficie, di dimensione due, e la misura di volume, di dimensione tre, in modo tale che tutto ciò che ha una misura finita e non nulla per una data dimensione abbia misura zero per le misure di dimensione più alta e misura infinita per quelle di dimensione più bassa.
Come abbiamo visto, il concetto di dimensione gioca un ruolo chiave in questa teoria, prima di poter misurare un oggetto dobbiamo determinarne la dimensione. La definizione di dimensione che sta alla basa della teoria è dovuta ad Hausdorff, ed è piuttosto complicata. Ne darò qui una versione semplificata, e purtuttavia utile in molti casi, dovuta a Kolmogorov.
Supponiamo di avere una curva limitata (che possiamo approssimare con un filo di cotone), e di infilare delle perline tutte uguali fino ad esaurirla. È chiaro che se dimezziamo il diametro delle perline, dovremo usarne un numero doppio per coprire tutta la curva, e se riduciamo il diametro ad un terzo il numero delle perline dovrà essere triplicato. C’è quindi una relazione lineare tra l’inverso del diametro ed il numero delle perline.
Se invece di una curva abbiamo una superficie limitata, che approssimiamo ad esempio con un fazzoletto, possiamo disporre le perline a ricoprirlo.
Che succede se dimezziamo il diametro? E abbastanza chiaro che dovremo quadruplicarne il numero, così come se dividiamo il diametro per tre dovremo moltiplicarne il numero per nove. C’è insomma una relazione quadratica tra la diminuzione del diametro ed il numero di sferette necessarie.
Infine, se prendiamo uno spazio limitato, ad esempio l’interno di una scatola, e ci domandiamo quante sferette c’entrano al variare del diametro, scopriamo facilmente che al dimezzarsi del diametro dovremo moltiplicare per otto il numero, dividendo il diametro per tre dovremo moltiplicarne il numero per ventisette, trovando in conclusione una relazione cubica tra la diminuzione del diametro ed il numero di sferette.
La crescita del numero di sferette è insomma determinato da un esponente, uno nel caso del filo, due in quello del fazzoletto, tre per la scatola.
Dimenticavo: supponiamo di individuare un numero finito di punti, e di volerli marcare mettendo una sferetta su ciascuno di essi. Ovviamente il numero delle sferette necessarie non crescerà al decrescere del diametro! A questa crescita zero corrisponde il fatto che la dimensione di un numero finito di punti è zero.
Il bello del metodo delle sferette è che oltre a determinare la dimensione, ci permette anche di calcolare la misura corrispondente dell’oggetto in questione. Infatti, tornando all’esempio della scatola, moltiplichiamo il numero delle sferette per il cubo del loro diametro. Siccome la prima quantità cresce in modo cubico e la seconda decresce in modo cubico, il prodotto si manterrà essenzialmente stabile, fornendo una misura approssimata del volume della scatola, a meno cioè degli interstizi tra le sferette. Questo vuol dire che al diminuire del diametro l’approssimazione sarà sempre migliore, ovvero potremo definire la misura di dimensione tre (o volume) come il valore limite di questo prodotto al decrescere del diametro (se ci ostiniamo a voler assegnare volume uno al cubo di lato uno, dovremo moltiplicare il valore precedentemente ottenuto per pi greco mezzi!).
Ma una volta che abbiamo fatto tanta fatica per definire l’ovvio, ovvero il fatto che una linea ha dimensione uno, una superficie dimensione due e così via, che ce ne facciamo di questa teoria? Sarà il germe della generalizzazione, che alberga in ogni matematico, a formulare la domanda che renderà non banale tutta la costruzione.
Abbiamo infatti parlato di oggetti di dimensione zero, uno, due o tre, in relazione al tasso di crescita del numero di sferette al variare del diametro, ma che succederebbe se il numero crescesse come un mezzo o 2,3, o la radice di due?
Potremmo ottenere degli oggetti di dimensione frazionaria o, come si dice, frattali?
La risposta è affermativa, anche se oggetti di questo genere sono difficili da disegnare.
Un esempio è l’insieme che prende il nome suggestivo di polvere di Cantor, dal matematico che l’ha inventato. Si tratta di una manciata di punti spolverizzati su un segmento, così tanti da avere dimensione non zero, ma non abbastanza da avere dimensione uno. Ma il successo della teoria geometrica della misura è dovuto al fatto che ci sono oggetti fisici che forniscono buone approssimazioni di frattali, per cui cioè il numero delle sferette cresce con un esponente frazionario almeno fino a diametri molto piccoli. Tutti avrete presente quel disegno sottile come una filigrana che fa a volte il ghiaccio sul vetro delle finestre d’inverno, troppo sottile da riempire una superficie ma talmente fitto da avere dimensione più grande di uno, almeno fino a diametri equivalenti a qualche centinaio di molecole. Oppure il disegno estremamente frastagliato di alcune coste come quelle norvegesi nella zona dei fiordi, che hanno dimensione frazionaria 1,5, almeno fino ad un diametro di qualche centinaio di metri.
E così di dimensioni, e dismisure relative, non ci sono solo quelle naturali, ma un’altra pletora smisurata, cioè non soltanto infinita, ma dell’infinità del continuo, non semplicemente del discreto. E già, perché per i matematici ci sono infiniti più infiniti degli altri. Ma questa è un’altra dismisura.
 
                                                                                             Daniele Guido
 
 
 

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