Pensavo che questo lavoro fosse più facile e intrigante: trascrivere le ultime opere del vecchio poeta, quello che si è insediato qui in paese qualche anno fa e che vive appartato, difeso dalla sua solitudine.
Da tempo soffre di problemi alla vista e non ha dimestichezza col computer; ho accettato questo lavoro per curiosità, conoscevo alcune delle sue poesie, le apprezzavo, era un onore per me diventare confidente delle sue ultime fatiche.
Ma qui, ora, chiusa in questa stanza, mi sembra di essere soprattutto un’infermiera, sebbene nessuno mi abbia investito di questo ruolo.
Il corpo di un poeta si decompone come quello di qualsiasi altro e dalla sua manciata di ossa emana un forte odore di medicinali; sento disagio quando si mette a tossire convulsamente, quando la voce gli esce a fatica, volevo essere in contatto con la sua mente, ma sono vicina al suo corpo, a un’energia che si spegne e si spengono anche le parole, le sue.
Con l’età avanzata il vecchio sta perdendo la memoria, la sua mente è come una lavagna, cancellata per metà con un gesto maldestro. Si dimentica i fatti, ma anche il nome di molti oggetti di uso comune; quando gli succede, si irrigidisce, diventa ancora più silenzioso, il viso secco, rugoso, la voce gli esce lenta, dura. E’ questione di sfumature, perché il poeta ha un carattere introverso, cerca di controllare la sua stizza, ma ho imparato a percepire ogni sua minima contrarietà, anche in mancanza di indizi.
Sta perdendo le parole il poeta, ma ogni tanto in questo deserto lessicale, emergono bagliori, come punte affilate di selce, cristalli purissimi dentro il buio. Sono squarci di una luce cruda, quella che, passato il temporale, rivela i disastri non quella dorata che avvolge di leggenda i ricordi.
Perché il poeta, a tratti, conserva ancora una mente lucida, acuta, beffarda, lavora dal di dentro le poche parole che si sono salvate, le modella con tocchi impercettibili, te le trovi scagliate addosso in mezzo al silenzio, come un sasso che per caso incrocia la tua traiettoria e poi va a spegnersi chissà dove.
Ma il poeta non è convinto di quello che sta facendo, negli ultimi giorni è rimasto tutto il tempo su una poesia provando e riprovando tutte le possibili variazioni, spostando una virgola, sistemando un a capo.
Ritorna sempre sulle sue decisioni, ho scritto e riscritto per lui decine di volte sempre gli stessi versi, vorrei dirgli qualcosa ma io sono solo una specie di dattilografa, è cortese con me ma non vuole e non si aspetta consigli.
L’irritazione che provo è crescente e solo un senso di colpa mi impedisce di andarmene. Vorrei solo fuggire dalla decadenza, soffocare l’angoscia, evitare il contatto.
* * *
Ieri il vecchio mi ha chiesto di cancellare tutto quello che mi aveva dettato, di eliminarlo definitivamente dal computer, mi ha imposto anche di strappare dei fogli di carta dove aveva tracciato a fatica degli appunti, delle impressioni.
Ho cercato di convincerlo, di prendere tempo, un lavoro così sofferto, dissolto nel nulla, ma è testardo il poeta.
“Elimini tutto, tutto, non voglio che rimanga niente” .
La voce era bassa ma a me sembrava che urlasse. Avrebbe fatto controllare da qualcuno se avessi rispettato la sua volontà, così ho trasferito tutti i dati su un CD che mi sono portata a casa.
E adesso che ne faccio? Potrei conservarlo se per caso cambiasse idea ma ripensandoci non me la sento di disobbedire così clamorosamente, di contravvenire alla sua decisione.
E in fondo, vigliacca come sono, la mia è una scelta a metà.
Sto leggendo e rileggendo le sue ultime poesie, quel che resta del canto, poi eliminerò tutti i file. Le parole che si sono conservate nella sua memoria, ora passeranno alla mia, dalla mia saranno salvate.
Non so esattamente perché, non si sa bene per quanto.
Miresol
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