Biografia
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Ho già un’età indecente; forse qualcosa in meno, calcolando l’anno da passare, per pensare d’essere ciò che avrei voluto diventare: uno così, all’anagrafe dei postini, non compare e mi dispiace. Avrei voluto essere raccomandato e non lo sono! Ordinario, pensereste; ordinatamente rispondo: sì! Non vi tratterrò a lungo: a lungo amereste essere altrove, lo so, ma è giusto spiegarsi prima per potersi ripiegare poi… E’ ciò che sto facendo e lo dico ai più distanti! Cioè a quelli meno attenti: al cane, agl’inciampi, alle dimenticanze, alle ricorrenze. Dirò col poeta, che non sono io, ma del quale scrivo ogni turbamento e le poche assonanze: “nacqui come tutti e come ognuno ne fui certo solo dopo un rapido consulto con le mie membra, non mi piacevo ed urlai. Degli astanti qualcuno pianse e qualcun altro rise: nessuno capì bene perché, ma tutti si diedero un gran da fare per raccontarlo.” Il luogo era, e dovrebbe ancora essere, Cetara, sulla divina costa d’Amalfi. Cinquantatre anni fa ed ancora continua a Salerno, dove lavoro nel settore dell’assistenza informatica e nella formazione. Varia fu la giovinezza e glabra d’onori, come pur’anco la maturità e similmente la vecchiaia incipiente. A qualcuno verrebbe in mente che è una vita inutile! Risponderò che di inutile in vita c’è ben poco, tranne la morte che spero di evitare nel secolo in corso: poi si vedrà… Ho vissuto per lo sport con sportività, quindi nessun risultato notevole. Ho vissuto per il divertimento spassandomela quindi niente di serio ho raggiunto. Ho vissuto per studiare ottenendo una laurea summa cum laude in Ignoranza Integrata all’Apparire Sapiente. Ho vissuto per scrivere consumando carta negli astucci delle Bic come cerbottane. Ho vissuto per lavorare avendo come obiettivo un’unica grande vacanza nella quale ancora mi crogiolo. Insomma, ho vissuto e vivo ancora a discapito dell’ovvio, ma - ovvio - questo finirà prima o poi, sperando poi. Sarei giornalista - pubblicista - se nonostante gli articoli pubblicati fossi riuscito a presentare un esame decente e ricevere una sedia girevole in una redazione decente, ancorché locale. Sarei editore se dagli oltre cinquanta numeri di mensile da me editi avessi tratto quanto basta per continuare. Sarei grafico pubblicitario se di tutta la comunicazione esterna ed interna realizzata fossi riuscito a comunicare ai committenti il giusto prezzo da pagare. Sarei un formatore se nei trent’anni passati a formare dagli analfabeti ai dottori mi fossi conformato all’insegnamento. Sarei un animatore radiofonico - lei, in perfetto inglese direbbe speaker - se nei ventiquattro anni trascorsi ad animare “on air” non fossi caduto malamente da quei voli. Ed invece, Egregio giunto fin qui, ho l’onore di annunciarti che sono ben poco e quel poco è: padre, sposo, genero e…! Come dire: paradiso, purgatorio, inferno e… limbo. Ah sì, una cosa buona c’è: sono interista ottimista. |
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Recensione
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Nel leggere i componimenti di Ferdinando Giordano s'intuisce senza ombra di dubbio che la sua poetica è ricca di spessore. Da qui, pertanto, il mio lieve imbarazzo nel scegliere le poesie che meglio lo rappresentassero nel suo proporsi a tondo, anche perché, per la verità, in ogni sua composizione c'è lo spunto del verseggiatore attento e profondo. Detto ciò, in questo florilegio poetico da me modestamente scelto si potranno riscontrare tutte le simbologie di un animo pienamente rivolto al gesto lirico inteso nel suo significato più ampio e veritiero. Ed è proprio nel suo scorrere veloce attraverso l'animo della poesia che si ritrova l'originalità del suo comporre, si avverte la ricerca quasi scientifica del linguaggio atto a produrre sempre un alchimia tra messaggio e atmosfera evocativa...Il suo poetare, oscuro ma solo all'apparenza, si bilica con grande equilibrio tra slanci passionali, sorretti da metafore articolate saggiamente, e trame linguistiche ben dosate, per poi sfociare comprensibilmente in gesti eligiaci di gran esito. In "In vita", "Tutto muta a guardare da fermi", "So di me come discesa la terra" e "Solo mia sarà la visione", infatti, questa sua abilità si espleta come un rio d'acqua alpestre che nasce da una piccola fonte e, durante il tragitto lungo il mare ampliandosi di forza trascinante, diventa flusso energico e dirompente...Così, per certe valenze, il flusso poetico di Giordano appare denso, s'adagia su trame tessute con oculatezza e visione dialettica infusa di nostalgica tristezza, quasi se il gesto autentico di un sorriso, un bacio o, più ampiamente, di una considerazione possano aprire quegli spazi ricchi di sensazioni al lettore. E in "Non chiederei, ora, del tuo sesso un chi", tutto ciò s'amplifica portando il messaggio ad uno stadio introspettivo:
Avevi un corpo a nido d’anima, come si legge tra le pieghe di un costrutto ricercato questo incipit è carico di forza dirompente, l'immagine dell'alveare a nido d'anima, simbolicamente, fuoriesce svettando su livelli elevati proponendosi come una sequenza, seppur semplice nei lemmi, forte dal punto di vista interiore...Il corpo dell'amata diventa natura rigogliosa e desiderio carnale, diviene passaggio di pensiero quasi osceno ...e ancora più avanti si rincara la dose: (...) Quindi ti visitai e i versi qui diventano più riflessivi, meno spudorati, quasi si volesse giustificare per l'audacia del gesto celato da un verbo così esplicito [ visitai ] e nel verso seguente c'è appunto la precisazione...Sembra ricordarsi avvertendo il lettore che la sua visita, poco importa se reale o auspicabile, è stata fatta con il passo usato nelle processioni, sicuramente pesante, rispettoso, lacerante e lento ma pur sempre voglioso di lei. Come si può notare, l'amore verseggiato da Giordano non è mai sdolcinato, mieloso, patetico e consueto, cerca quasi sempre di filtrarlo attraverso una lente spesso ironica e spettrografica, in cui ogni sentimento è reso originalmente e in "Quindi, vai" se ne ha un forte sentore: Che cosa conduce Il commiato espone l’assenza negli spazi ritrovati, Quindi vai, esterna ai miei polsi e resto trancio dei tuoi occhi: La città si muove, ha gambe tue: per farmi insonne. versi questi, come si può ben notare, altamente simbolici, dove il desiderio si fa tratteggio e la cura del particolare riempe la scena: il cruccio delle grucce sul cuore, la gonna, la zip, il foulard e il seno giocano insieme nell'immagine come pedine mosse ad arte, per sfociare infine nella metafora dell'abbeveramento, che introduce lo scoramento del commiato...Un concetto d'amore sofferto, legato al compimento come prova di coraggio e il tutto posto come un percorso lungo e travagliato, ma proprio per questo ammaliante e vissuto con trasporto. Il Giordano sembrerebbe dire..."Guardate che la poesia, oltre essere ricerca del nuovo, è sofferenza, travalicamento del superfluo, è un passaggio attraverso l'animo". E in "A mio padre, sulla costa d'Amalfi", se ne ha un'ulteriore conferma... Padre, questa sera non ti cerco a caso, ho disteso il mio corpo in appendice qui l'amore della propria terra s'arricchisce della figura del padre e il componimento, tra le pieghe cariche di ricordi e zone a lui molto care, diventa una preghiera accorata per una persona che non c'è più ma che ancora presente nel suo cuore. La chiosa è un tentativo o, meglio, una speranza di lenire in qualche modo la mancanza fisica del genitore, quasi se dirselo, in qualche modo, potesse avvicinarsi ancora a lui. Potrebbe apparire come una disillusione, ma nel scopo primariamente poetico non lo è affatto, perché i ricordi possiedono una valenza terapeutica e l'autore di ciò n'è consapevole e vuole trasmettercelo. Oggi tutti sanno epperò, occorre che io ricordi nessuno corre scalzo sopra i cirri a ridersi mentre cade. In questa poesia, oltre a puntare il dito sul progresso simboleggiato dall'aereo, Giordano con cipiglio scanzonato, quasi provocatorio, ribadisce nemmeno tanto velatamente che la terra, più volte calpestata da piedi incuranti e incoscienti, sta per esplodere. E' un gemito preoccupato. E' un monito al gregge del mondo...Con immagini irrisorie si vuole celare un destino al quale non ci sarà soluzione se non si porrà rimedio. E il verso finale ne traccia la forza e l'ironia lucida... Quando il peso del frutto spiegò il concetto della leva Speculammo sull’ipotesi che tutto abbia un senso, qui, infatti, il protagonista è il popolo delle formiche, che per trasposizione può paragonarsi al genere umano. Abilità e capacità di sintesi in questi fulminei versi: traspare lo sconcerto del popolo sotterraneo quando, atraverso una semplice leva, l'uomo avvia le operazioni agricole. Lo stupore degli imenotteri nello scoprire che la terra è abitata da altri esseri oltre loro è grande, ma è ancora, più amplificato quando si rendono conto d'essere indifesi verso quella razza che, per esigenze personali e di sopravvivenza, è pronta a distruggere tutto. Non c'è nulla che si può fare per opporre resistenza all'imminente distruzione e il verso chiave è proprio quello in cui il vomere affondando mette a nudo la debolezza delle larve E' ovviamente un paradosso, portato all'estremo, in cui il gioco delle parti è impari ma, nella sua crudezza, riporta a galla quell'esigenza di trovare la misura nei rapporti, qualsiasi essi siano...
Francesco Anelli
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Dimmi di me
Tacciami di aver deluso i guadi
che non attraversai. E di tutti i ponti la prima spalla solo accarezzata quand’era appena un limo il coraggio. Tacciami della viltà del giunco piegato alla corrente, di quella persa opposizione al gorgo, delle rotazioni in fibra di lamenti. Tacciami muovendo cauta gli zigomi: l’urlo dimena fruste ed io temo la sua gabbia. Eppure sento la gola matura quando mi espongo. |
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La domenica del lago
C’è già qualcosa che nasce a pelle del monte.
Furono altre zolle, e saranno di coscienza. La confraternita delle piante si ravviva: nessuna aveva ombre, e vanno folla al sole per la loro striminzita aurora; ma il rumore del rotolamento era quello; come quando rovescia il petto ampio una roccia e coglie meraviglia di tenerezza ai lombrichi nuovi. Erano il ventre della sassaia. La sua tenia angusta. Non ce l’avrebbero fatta a sollevarla da sola, la vita che si fa all’oscuro della chiara sorte trovata: animale e curva. E nemmeno avremmo voluto fosse così. C’è fretta ovunque e sottoterra i semi smagliano la loro coperta. Sembra non manchi niente. La neve scioglie il suo pensiero d’acqua e corre, inventa pozze di riposo: non vedo muscoli perché qui non servono. I liquidi si liberano dalle trappole solide: lo fanno senza sforzo: perché non noi? Succederà una volta, una soltanto!, e non sapremo. Potesse essere qui, tra me e il mandorlo: il mandorlo gemma ancora. Avverrà così: il rombo delle braccia lungo gli argini del corpo, la loro frattura in miriadi di puntute scaglie infisse dal pensiero stesso alla schiera delle costole senza doverci essere a principio un fondo di dolore. I suoi rostri balordi, del ghiaccio - dico - ma non solo: scivoli, ma di che ti lamenti? Non sente l’erba con la gola umida. Va alterna, va per gaudio agli alpeggi. C’è un’unica via: un uomo muove un’ombra, e sono io che introito vita da spendere in città. |
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Come tra i panni spogli
Tornerà la triplice arsura di mistral
giù per gl’intonaci di sabbia sui dorsi dei delfini e nelle gole dei gabbiani. Sarà gobba la rotta inamovibile per i flussi del nome perso: che gran bere ai ritorni sulle labbra del migrante, restituito allo stomaco della città, diseredata dalla coppia torrida. - Riavrò il tuo sorbetto al limone? Vai a saperlo tra le guglie della folla! Mi muovo tra grisaglie di vetrine trapassato dall’estoque di febbraio - in ricorrenza al cuore - con la mancata forza del tuo corpo che non trattiene furia sulle vernici come tra i panni spogli. |
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Per una donna e mai più.
Non vive poiché non morì, come s’intende la pioggia,
solo fu attratta altrove. La vedevo andare ai sacramenti sulla corsia della quaresima - in auge i suoi tremori - portando calibri esatti di passione. Fu una matassa di passi, su tutti i sentieri che andavano dalle rotule ai sogni: un colpo vero al peso che costò alla terra una quercia di un secolo scorso; uno spartiacque a valle, patendo grovigli e inghippi di fretta, per quell’invaso che trasudò fili come idee a farmi uomo a stenti. Seppe stare ferma quando l’organo zittì la voce: tese la mano sul ronzio del mio lamento e vi lasciò un silenzio semplice ssssst… come ancora mostra la bocca. |
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Liturgia dell’ombra portata.
Triste la nera di riporto
che muta per gli appoggi. S’allunga o si spezza nei piani ad uno sguardo retto li mantiene ad angolo ad aversi un futile turgore d’asse. Nera la triste cade di colpo sfuggita al corpo che sia o non sia vivente appartiene all’origine lo implica: di simile ho saputo solo gli dei ma anche l’amore o l’odio. Finché qui ed io saremo qualcosa sarà l’ultima a calare di me nella calata luce. |
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Prima della sera
Lei, lui.
Il muro contiene radici e pietraia. Forse è più secco il suo cuore che il sole nella vasca. Le serpi origliano passi ma trovano l’ombra delle cicale, che non basta, anzi le arrabbia. Niente di più ci assiste declinando l’afa al fresco. Niente ci coinvolge meno delle radici esposte. Tra di loro scaviamo una tana di corpi per le nostre fluide carezze. Siamo complici dei rami e reggiamo foglie di calma quasi fossero porzioni di pause. Se cadi ora, come una pesca satura di mezzogiorno avrai dimora nella mia fame. Se ti lasci baciare, amor mio, sarò dimora delle tue stelle mentre le accendo. |
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Sul faro.
In questo semplice rubarti una smorfia, il volto si dà tregua
quasi àncora non ormeggiasse l’uomo ch’è venuto a dirti andiamo! Si direbbe di queste onde un caldo abbraccio di sottane in punto alle ginocchia come gli avambracci della luna sulle tibie della sera oppure passi accorti oltre la soglia del molo acquartierati nei frangenti del mattino spoglio. Amarti era amarti ancora benché nel disdegno del rancore il tuo nome rappresentasse una seduta uno sbarco un luogo puoi dire un richiamo teso ai glutei per quella forza asciutta delle aderenze. Amarti ancora, lo so, era amarti prima ma non ebbi fondo per attese congrue ai tuoi voli. Però poi ad un gabbiano in cova o forse in pagina di cielo: guarda, un gesto di vento coglie il mare alla fonda c’è la risacca persa sui bordi ancora. |
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Spegnendo un lume, un salto di luce.
Ai recinti delle meridiane rubo ombra
e sugli intonaci dei campanili i rintocchi spettinano crepe a ciocche: qui compongo a labbra i batocchi del tuo seno sonoro. Tu sei la schiena di quel duro colle che s’anticipa nel valico di una lontananza incerta ma se avanzo a dita aperte negli avvalli opponi castità melliflue a guizzi di vocali intense. E fermi l’uscio al chiuso. Dammi una ruga che mi danzi intorno sulla tua esile scorza un raggrinzire vacuo mi accora ma pattino ruotando i polsi perché il palmo colga la lanugine istigata a guardia di ogni attesa di percorso. O di timore. Cosa, per questa fuga che ti attardo? Sei tino di fragranza spillato a goccia: rade al punto che nessuno schiocco di castagne al fuoco provocò salive tanto liquide alla bocca. E come vino solido rafforza ad ogni primitiva piena il tino si accalora. |
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-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Autore di Rosso Venexiano: Ferdinando Giordano [Gil]
-Recensione: Francesco Anelli
-Editing: Anna De Vivo
ventitremarzoduemiladieci
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