RX Coste DX - Rita Foldi | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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RX Coste DX - Rita Foldi

Era una stanza al secondo piano inferiore, illuminata da luci al neon. Quadrati luminosi si alternavano con quadrati opachi, componendo l’integrità del soffitto: una tavola di scacchi senza pedine né fanti, solo regine e re in camici bianchi e verdi e blu. Quel posto, sebbene fosse un edificio di cura, era paradossalmente calmo, tranquillo, e sapevo con certezza che quella sensazione era vera anche a prescindere dall’ora: le sei di pomeriggio. Regnava una perfetta serenità, non vi erano infermieri che correvano su e giù con carrozzelle e barelle, non vi erano pazienti su letti di morte, non vi era nulla di quel brusio e rumore costanti dei veri ospedali, né quell’odore sgradevole di malato e di chimica dei soliti ambulatori, qui si facevano ricerche e terapia riabilitativa. Tuttavia... Tentavo di rilassarmi, sentivo le gambe tremule e cedevoli. Camminavo su, camminavo giù, camminavo sul posto vacillando. Panico totale re dentro di me. Panico: era la parola adeguata. Presi in mano il giornale, sfogliando e leggendo solo i titoli maggiori, dall’ultima pagina alla prima, lo riposai senza ricordare nemmeno una riga di quanto avevo appena letto. Nel corridoio dietro la porta, due dottoresse chiacchieravano: immaginavo il discorso riguardante una terza persona o una situazione che non andava bene, che non piaceva loro. Leggevo insofferenza e rabbia sul viso della bionda col camice bianco, cosi perfettamente truccata e pettinata che più che lavorare al Santa Lucia sembrava uscita in quel medesimo istante dal parrucchiere. Poco prima mi aveva gentilmente lanciato un foglio giallo da compilare per la radiografia, adesso invece conversava agitando le braccia con un medico dal camice verde appena sopraggiunto. Sudavo freddo e aspettavo con ansia che la porta doppia, metà a vetri opachi e metà di plastica bianca, si aprisse e finalmente chiamassero il mio nome. Una copia di un quadro di Kandinsky dai colori pastello e dalla cornice bianca, un po’ nascosto, un po’ messo da parte in un angolo, squadrava le porte di fronte: due bagni, ed un'altra destinata esclusivamente agli "addetti ai lavori" come recitava il cartello appesovi sopra. Dietro il vetro della "cabina" d’accoglienza, una terza donna - probabilmente dottoressa - dal camice blu, parlava incessantemente al telefono arricciandosi i capelli con l'indice probabilmente con un parente o un amico, noncurante dei pazienti che si ponevano dinanzi a lei, pensando di dover chiedere a lei. Sedie rosse attaccate tra di loro quattro a quattro, aspettavano spossate e arrese che finalmente qualcuno le occupasse di nuovo. Erano tante, sparse un po’ ovunque nella grande sala come piccole fragole in un disteso campo innevato; eppure quella sera eravamo relativamente pochi: due coppie di signore, madre anziana e figlia di età media, madre di età media e figlia bambina ancora –raggiunte con sette minuti di ritardo, rinfacciati, dal marito/padre. L’ultimo coinquilino temporaneo della sala d’aspetto, era un uomo giovane che accompagnava la moglie-fidanzata appena sparita dietro la porta a due ante. Mi chiedevo se le sedie rosse conoscevano il posto ove vivevano, se erano consapevoli della loro sorte, se sapevano cosa portano sulle loro spalle:

…viaggiatrici immobili e silenziose orecchie, testimoni tra i dolori…

L'attesa è sempre stata la cosa che più di ogni altra, e meglio di qualsiasi altra, riesce ad uccidermi e a innervosirmi. Soprattutto quando è immotivata o i motivi sono scorretti, come accadde quella volta: aspettavo nel la stanza accanto al macchinario facendo i cento passi da leone in gabbia, mentre la giovane dottoressa, di là nell’altra saletta, rimase per venti minuti al telefono a risolvere problemi personali. Finalmente. Ce l’avevo fatta, era tutto finito. Senza esito, ma era finito. Uscii da lì dopo l’infinita attesa e i due minuti di analisi; le lacrime che mi graffiavano di rabbia riemersero piano, timidamente. Camminavo silenziosa, rimuginavo ancora sull'inutile tempo sprecato. Non riuscivo a pensare, non riuscivo a parlare, sentivo a malapena le gambe e le ultime forze mi salutarono da lontano. Mi riappacificai con me stessa nel sedile di pelle della jeep che mi avvolgeva, vi stavo comoda. Rimanevo silenziosa. Non parlavo. Mi avvicinò una sensazione strana, un misto d’insofferenza e d’incapacità. Pensieri, lacrime di tensione nervose. Chiusi le pareti del mio essere, come se avessi cucito insieme i pori della mia pelle per diventare ermetica e per non esser più impregnabile dal mondo. Mi isolavo, lasciando all'erta le orecchie, sentivo solo la musica che A. aveva messo su, Vasco: Sally. Era una vita che non la ascoltavo, che non la sentivo. Guardavo fuori dal finestrino e mi perdevo nel buio del bosco di Via Ardeatina, rivolgevo lo sguardo avanti per spostare la mia attenzione, per occupare la mia mente. Vedevo le luci rosse dei fari delle macchine davanti a noi, tutte in coda, cosi silenziose, rosse come i sedili della clinica. Affondai nel sedile e mute scivolarono sulla mia guancia, di nuovo: panico e stress evaporavano. Dovevo galleggiare: mi tirai su, cercai di cantare....

ero un caleidoscopio instabile..

Rita Foldi [fallenfairy]


-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Racconto di Rita Foldi [fallenfairy]
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