Cinque cappotti neri sfilavano sul sentiero immerso in un’infinità di neve, chiusi sotto il cupo cielo di dicembre. Stratificati veli di grigie nuvole uccidevano la luce del sole. Le colline, il cielo, la terra, tutto era pallido, vestito di purezza, ogni sfumatura dei non-colori assisteva alla cerimonia.
I cappotti camminavano vicini, aiutandosi a vicenda a non cadere, sostenendosi sottobraccio per non crollare lungo il tragitto dietro il maestoso cavallo nero che procedeva lento. L’avevano scelta bianca la bara, come la sua anima altruista che il Tempo aveva riconsegnato alle mani degli angeli troppo in fretta e che ora, troneggiava davanti a loro.
Accoglieva il mondo addosso, mentre il mondo la lasciava andare via.
Da lì, vedevo anche te, amore mio; celavi dietro ai tuoi occhiali scuri, occhi rossi corrosi dalle lacrime acide del tuo cuore nobile. Lacrime che insistentemente cadevano. Nonostante i tentativi non potevi nascondermele, le vedevo, le sentivo su di me. Tenevi per braccio sulla tua destra, un’esile figura femminile dai capelli castani corti e dagli occhi verdi, avvolta in un lungo mantello di lana corvina. Accanto a lei, un uomo dai capelli brizzolati, la mano destra nascosta nella tasca, stringeva a sé sua moglie con la mano rimasta libera. Mamma era calma, tutte quelle medicine che aveva ingurgitato avevano fatto effetto: il suo viso era quasi impassibile, gli occhi, persi nel vuoto del bianco onnipresente. Mi seguivate camminando piano sul morbido tappeto di foglie morte che scricchiolavano sotto i vostri pesanti passi.
Sulla bara, l’unica macchia di colore: novantanove rose rosse come un cuore, pulsavano. Le stesse rose che quel giorno d’estate, al mare, avevi promesso mi avresti regalato alle nostre nozze, ora invece erano lì, stupende, sprigionavano ciò che io salutavo: la vita.
Improvvisamente, il cavallo nitrì squarciando il greve silenzio della campagna, poi si arrestò. Così, anche i cinque cappotti rallentarono. Era l’ultima fermata per me, ero giunta al mio capolinea, e loro, al confine, oltre il quale non avrebbero più potuto seguirmi, la linea gialla che non era permesso loro varcare. La neve iniziò a cadere densa, i primi fiocchi posandosi dolcemente si scioglievano sul legno, confondendosi con il suo bianco non si distinguevano più. Bastarono pochi attimi ed una soffice coperta rivestì il mio letto. Un venticello si alzò e mosse le rose, un petalo volò via ed atterrò sulla tua scarpa. Lo raccogliesti e, per proteggerlo, lo racchiudesti tra le tue mani calde mormorando parole d’odio e d’amore, parole che c’eravamo detti e ripetuti da sempre, parole che non avevamo avuto tempo di dirci.
I cappotti, immobili, fissavano disperatamente la bianca bara che scendeva piano. Mio fratello evase lo sguardo, gettò via i pensieri nel panorama, cercando di arrivare il più lontano possibile; piangeva e le lacrime si ghiacciavano. Mi rivolse il suo ultimo pensiero, e mi salutò.
Ero quasi arrivata, quando improvvisamente ti buttasti a terra, quasi a volermi impedire il viaggio. Un viaggio che sarebbe iniziato solo allora. Inginocchiato nella neve, urlasti un “no” infinito che echeggiò nella campagna, tendendo le mani verso le rose: verso la tua Rosa, quella che sapevi, sarebbe sempre rimasta Tua. Il petalo che custodivi cadde e risalì con fatica, raccolto da mani anziane che si poggiarono sulla tua spalla e ti strinsero forte. La pioggia tempestosa cancellò la neve, cadeva cruda e fredda. Dopo l’ennesimo tuono, un unico abbagliante lampo fulminò l’albero solitario in cima alla collina, spezzandolo a metà: il mio segno per te.
Lentamente, i cinque cappotti si allontanarono, con una spada nel cuore, mentre nella lontananza, l’albero bruciava ancora…
Rita Foldi [fallenfairy]
Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Editing: Manuela Verbasi, Alexis
-Racconto di Rita Foldi [fallenfairy]
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