Scritto da © Marco Mucha - Ven, 25/05/2012 - 14:35
Oggi assistevo a un incontro, in un museo di qui, con un amico che ha realizzato un nuovo testo sulla calcografia, l’arte dell’incisione. Sul che devo dire questo:
Io cercavo la verità, perciò ho dato la mia vita all’incisione.
È perché volevo immettermi dentro la traiettoria del massimo possibile di verità, che ho intrapreso il percorso della calcografia. A muovere dal principio che la verità, se pure è qualcosa, inerisce al linguaggio, è un “oggetto” semiologico, e il suo terreno è quello indicato da Gadamer, quello della ermeneutica ontologica. Incidere è un conoscere cogente, che dispiega il proprio essere nell’atto stesso di procrearlo. Ma partiamo dall’inizio.
L’alba semiologica del segno si disvela in una triade: il gesto, il segno e il senso. Non erano difatti contingenti questi due titoli: “Il gesto e il segno”, e “Segno e senso”- il primo, dal libro sull’incisione del mio amico-mentore Guido Strazza, e il secondo, titolo della mia mostra milanese. Perché?! Perché, come ebbi già a suggerire, quanto più il gesto dell’espressione si rende esplicito e diretto nella tecnica dell’espressione, tanto più esso si approssima al senso di ciò di cui è espressione, e quindi alla propria verità. Come si vede si tratta di tutti concetti trascendentali, in quanto la verità sta nel dirla con un linguaggio, ed è all’interno dello stesso che è situata e da cui va estroflessa. Ora, se il senso del lavoro sta, come sostengo, nella sua verità (ossia nel concetto trascendentale che corrisponde al termine “verità”), quello risulterà quanto più adeguato e consostanziale a questa quanto più esplicitamente e immediatamente vi si rapporterà nell’espressione. E se questa è forma, e la forma è una rappresentazione, bisognerà convenire che questa è quanto più ontologica ed “ermeneutica” per quanto meno mediata possibile si manifesti. Ossia, la rappresentazione della verità, che è l’unica verità che ci è concessa, è tanto più essenziale e veridica, quanto meno “rappresentazione”, e perciò stesso più sostanza, più senso, essa si annuncia.
È il caso di chi segna con un graffio il reale, sia esso rupestre, come la roccia del “Magdaleniano”, o legno, pietra, metallo.
Il criterio-guida in questa transizione verso la verità (che è sempre una possibilità, non mai un dogma), è quello della distanza: la distanza è mediazione e più il gesto è mediato, ossia distante dal proprio traguardo segnico, più si scarica la potenza semantica del segno. Per il che possiamo dire che è nell’immediatezza del segno, del gesto che segna, che risuona il diapason del senso, che echeggia il più alto e armonioso accordo di verità e rappresentazione. Ora, se noi poniamo un oggetto in questo spazio di mediazione, cominciamo subito ad estraniarci dal nostro termine finale, che è la verità. Cominciamo cioè a corroderlo, o a infiorettarlo, anteponendo così al progetto del senso quello della tecnica che lo supporta. Per esempio, nel pensatore mitico, la rappresentazione di un bovino ha uno scopo apotropaico, cioè simbolico di un bene che è insieme evocato e rappresentato. Il graffito si presenta così come un totem, il segno di una differenza trascendentale tra chi disegna e ciò che viene rappresentato. Perché l’animale che non può, né sa rappresentarsi, si cangia nel segno del bene che lui, senza saperlo, incarna per il disegnatore. Di modo che è infine trasceso nella sua animalità e assurto nella dimensione parallela dei simboli, dei significati per cui il bene esiste e non più della mera disponibilità dei beni allo stato di natura. Tuttavia, quanto più abile si fa il disegnatore, affinando la sua tecnica e portandosi quindi ad una rappresentazione icastica del visibile, tanto più perde quella sua ”presa” trascendentale che configurava più il senso morale, ontologico, del rappresentato che non la figura. E se noi, invece di un gesto, una mano, una punta, poniamo in quello spazio di mediazione un oggetto tecnologico, che so, una macchina fotografica, ecco che la “trascendenza” è tolta, o magari mutata, perché il segno che così ne ricaviamo non ha più nulla di quella necessità simbolico-semiologica (in quanto mediazione pura, linguaggio che parla al linguaggio) e il gesto è solo più automatico.
Con il che non si vuole significare che la fotografia non sia arte. Il concetto di arte qui non è né accennato, né citato. L’espressione in sé è qualcosa di ineffabile, ed è impossibile anche solo presagire in quale accidente storico o culturale andrà a cacciarsi. L’espressione, ossia l’arte, è immanente all’essere, ossia al linguaggio, di modo che ove c’è essere, ove appare un soggetto loquente, lì l’arte è possibile. Tuttavia, se teniamo fede al nostro tridente di gesto, segno e senso, sotteso al nostro circuito di avvicinamento alla verità, dovremo convenire che è questa verità, sia pure parziale e incompleta (e ad ogni modo, come può essere parziale un componente di ciò che è comunque tutto vero?), l’effettivo architrave su cui poggia il tempio dell’essere, e che quindi l’arte, o si immedesima con questo stesso processo, ossia è verità essa stessa, oppure è un quid ineffabile che la cavalca. Ergo, in entrambi i casi, non può darsi arte senza verità.
Per quanto sta in me, per quanto rientra nelle mie possibilità di portare ad effetto il mio viaggio all’interno del nucleo “subatomico” della verità (il vero è nel dettaglio, scrisse il grande Adorno), mi rifarò a un déjà vu: “il mezzo è il messaggio”. Nel senso che lo è quanto più è “pressante”, incalzante sul messaggio. Quanto più, come dicevamo, esso coincide con il gesto. Viceversa, quanto più lo spazio di mediazione è occupato tecnicamente dal mezzo, tanto più il messaggio si esaurisce in se stesso: è il caso dei massmedia, ove il messaggio non è gesto ed è privo di senso (di segno), perché il senso del messaggio non è più il fine, il contenuto, della comunicazione, ma questa è fine a sé, comunica soltanto che sta comunicando.
Ora, siccome il mezzo in questo caso è l’incidere, il gesto di incidere, commuterò la vecchia definizione (di Mc Luhan) con quella nuova: il gesto è il messaggio. Il movimento significante di un braccio, di una mano che si arrotola su un tracciato, su un arzigogolo scavato nella materia onde estorcerle un segno, una parole (De Saussure), quello è il messaggio. E la sua verità risiede nella sua immediatezza: laddove ciò che media è il tempo e lo spazio, l’immediatezza del gesto che li attraversa diventa il testimone della sua stessa verità. E lo spazio di mediazione si riempie di senso, perché nessun artificio, nessuna Techné, si interpone, ritardandoli e quindi alterandoli, fra il gesto e il segno.
Un ultimo accenno al dipingere (un accenno comunque molto generale, che ogni espressione può essere un totus e contenere quindi una molteplicità di varianti e applicazioni tali da capovolgerne completamente i presupposti). Il dipingere è il succedaneo più prossimo all’incidere (e al disegnare, il quale è doppio al precedente), ma introduce nello stallo vuoto tra gesto e segno un impatto morbido al “taglio” perentorio del gesto, una sorta di “paracadute” che attenua la spinta affannosa dell’inconscio, a pieno beneficio della gratificazione estetica (che è tanto più efficace grazie alla perizia artigiana del suo agente). Non so, il pennello, il colore stesso, oggetti che gratificano la pittura con la bellezza della loro stessa stesura (il “tocco”, la “pennellata”, anche se oggidì assai in disuso). Ma non per me, come dice Orfeo davanti alla bellezza del creato. Perché io volevo la verità, non la bellezza. O, per meglio dire, non la bellezza da sola. Cerco la verità perché la pretendo bella e giusta, magari illudendomi aristotelicamente che tutte le qualità umane siano destinate a combaciare in un imaginifico lieto fine.
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