Poetessa indubbiamente d'amore, Manuela Verbasi, l'autrice di questa raccolta.
Donna profondamente inserita nella nostra epoca, ella ci rende l'eterno femminino, ce lo porge con intensità tale da rimanerne prima conquistati, poi a riflettervi.
Lo rende alle donne perché ne prendano coscienza, agli uomini perché sappiano cosa possono trovarvi, nella comunione dell'amore.
Ricordo che la prima volta, quando ebbi a scorrere questi suoi componimenti quasi frammenti, ella ebbe a rammentarmi il conturbante discorso amoroso, lieve, pervaso di ironia, di passione, lirico, dell'unica grande poetessa dell'antichità: Saffo.
Saffo, che con l'audacia di una propria dialettica si erge davanti all'epica maschile. Che, da sola in un mondo di uomini, seppe dar voce all'altra metà del mondo: la poetessa de "la luna dalle dita di rosa vince tutte le stelle", dedica con la quale Manuela ha volutamente, emblematicamente, iniziato, seppure con nota a margine, una delle poesie della Raccolta.
Vi è la stessa grazia intangibile, innata, ho trovato gli stessi colori, profumi, suoni, in tutti gli incontri- poesia della nostra autrice.
I suoi versi sono ciò che le donne dicono, che solo esse sanno dire quando, cantando d'amore o della sua mancanza, aprono gli occhi ai nostri universi.
Manuela ci offre la loro peculiarità.
Non vi è infatti necessità alcuna dei mediatori dell'ambiguità, dei misteri della diversità del tiaso, per travolgerci. A noi necessita l'arpeggio dell'umanità per addentrarci tra il sacro ed il profano, la spregiudicatezza dell'immediato, per passare dai sensi allo spirito e viceversa.
Questa specificità Manuela Verbasi la porta al di fuori del momento storico, dell'ambiente particolare, così rendendola attuale; la mantiene al mondo d'oggi.
Un mondo, in fatto di sentimenti, tematiche, sensazioni, non dissimile da quello ove visse la grande ribelle, l' innovatrice ammirata da Platone stesso, fino a Byron; fino a noi. Dove l'incomunicabilità tra l'universo femmineo e quello maschile, tra le generazioni, tra i modelli politico-culturali, tra le fedi, i colori della pelle, nonostante lo sbandierato progresso scientifico e lo pseudo abbattimento di barriere operato in questa nostra età, gli sms, le reti ed i notebook, permane tutta.
Dove "ciò che manca", che non c'è e dovrebbe esserci, continua a mostrarci cosa e come siamo: soli, o insieme nell'attimo della felicità.
Nelle righe sopra si è parlato di frammenti e di epica.
Epica è la battaglia che Manuela Verbasi sta conducendo porgendoci queste sue Poesie, ed epico è anche lo stile, solo in apparente contraddizione con questi Suoi componimenti brevi.
Ognuno di essi, infatti, lungi dal costituire una visione parziale, il frammento di un mosaico che prenderà forma solo alla fine, è la rappresentazione artistica di uno stato d'animo contingente ma concluso, che troverà la propria liberazione, o l'inabissamento, in sé stesso.
Non un graduale svolgersi che bisogna di un completamento quindi, ma parlando con il linguaggio di un'altra arte, una vera e propria tela dotata di una sua completezza: i soggetti, l'oggetto, l'ambiente, le interrelazioni.
L'epicità, in senso omerico, è data dalla contiguità di tali poesie, messe una di fila all'altra secondo un disegno preordinato non dall'autore, contro la sua volontà, come dipinti in una galleria a segnare le varie epoche dell'artista o, per rimanere in tema, a raccontarci, da un inizio ad una fine, di un tratto della sua esistenza.
La contemporaneità, infine. Essa è data non solo dai temi come evidenziato nell'analisi a seguire di alcuni testi, ma dalla molteplicità dei livelli nella scrittura, dalla particolare costruzione della poesia, dalla sua ritmicità con l'abolizione quasi totale delle copule, l'uso di avverbi, verbi all'infinito come a dirci: non sto parlando solo dell'amore ma anche, e soprattutto, dell'opposto.
L'originalità dei lemmi utilizzati viene così ad unirsi ad un accuratissimo posizionamento nella sillabazione metrica, al ricorso a riferimenti mai dispiegati, al gioco con le figure cosiddette stilistiche fino a trasportarci dall'urgenza di una invocazione al suo decadere.
Dal grido, al lasciarselo entrare lentamente dentro.
Di quanto sopra detto, di questa polifonia ed insieme di corrispondenze che mi hanno affascinato, di Manuela Verbasi, si trovano riscontri fin dal titolo: In memoria di un cielo porpora.
Già ponendoci come lettori attenti di questo, potremmo iniziare la nostra utile decostruzione della sua poesia.
Quel “In memoria” che si presenta non come “ in ricordo”, fatto, bensì come la facoltà intera, duplice, volontaria ed involontaria, insita nell'uomo, di allargare o restringere i nostri confini biologici nel ripescaggio delle esperienze, in concreto far risorgere o nascondere, le gioie, le incertezze o sospensioni, i dolori. Come salvezza di noi stessi, come sopravvivere. Poi quel “cielo porpora” che assomma in sé, nell'alvo della migliore tradizione simbolista delle sopra richiamate corrispondenze baudelairiane, non un solo color rosso cupo, assimilabile al viola, ma la vischiosità ghiandolare da cui origina, questa etimologia da cui il suo uscire fonico, con i suoni delle “p”, delle “o”, di quel “r”, ancora grave in bocca.
Prima di abbandonare il titolo e passare all'esame di alcuni testi, in ultimo in merito ad esso un'altra annotazione rappresentativa della cura di questa autrice. Si sarebbe potuto scegliere, in luogo del termine porpora, un suo sinonimo, sia dal punto di vista più propriamente figurativo, che lessicale, qual'è cremisi. L'autrice avrebbe però tradito, a nostro parere, un proprio codice, quello della precisione, della correttezza, in primo luogo verso se stessa: la durezza del suono della radice del fonema cremisi, pur addolcito nelle sillabe finali, non avrebbe mai potuto rappresentare esattamente, come invece si doveva, la pastosità, quella mucosità di cui ancora Manuela avvertiva il profondo radicamento, di cui ancora essa non si era liberata.
Ora le tematiche di questa Poetessa. Che non ci è nuova, per averla seguita attentamente fin dalle sue precedenti fatiche.
L'abbiamo definita, all'inizio, poetessa d'amore e lo confermiamo. Ma si tratta, a veder bene, di amore per la vita: un filo rosso sottile sempre sul punto di spezzarsi che corre in ogni componimento, che, come un comune denominatore umano resiste ad ogni Nonostante. È un autunno, un inverno talvolta, destinato, fino a quando ci sarà vita, a ridivenire primavera, poi estate. Anche nei momenti peggiori che l'esistenza ci presenta, quando tutto pare essere perduto, ritroviamo in questa Autrice una specie di risorsa arcana, una forza riposta nel nostro più profondo, traducibile in una parola: Speranza.
Pur ridotta al più flebile dei lamenti, a preghiera che nessuno potrà ascoltare, in un mondo in cui l'oggetto si è disperso pare dirci Manuela, io o noi, la Speranza non “possiamo” ucciderla.
È il Divino che abbiamo dentro, la stessa materia organica di cui siamo fatti, il nostro corpo, l'Inconoscibile, ad impedirlo.
Così quando leggiamo la poesia scritta qualche anno fa in occasione della malattia della figlia, quell'invocazione con la quale la poetessa esordisce, “Eccomi qui Dio” quel quinario secco, impari, per sé tronco, un ossimoro si trasmuta in paradosso; l'umano si riconduce ad una diretta chiamata volontaria di un giudizio universale. L'impossibile porsi al pari, di fronte, ad un ente così diverso da noi diviene l'improbabile, e noi ci rendiamo improvvisamente coscienti della potenza della visione poetica, del linguaggio di Manuela Verbasi. La quale, anche in questo componimento emblematico, continua a parlarci di amore, questa volta del sacrificio di se stessi per l'altro. Come un Cristo che si incammini, portatore sulle spalle di tutte le proprie croci.
Leggerei il terzultimo verso “eccomi in sordina”: un senario, una sola sillaba in più, ma una finale già piana, per altri livelli, così: ”Speranza che non puoi morire, remota, eppure nel Verbo che ci è stato concesso quale superiore facoltà”.
Stesso il significato ultimo in “Pensieri”. L'allitterazione di "avanti", con la quale il primo verso si chiude ed inizia la seconda unità ritmica con conseguente invocazione. Mediante la quale figura stilistica il senso si sdoppia assumendone tutt'altro, come segno di una seconda fase.
Oggetto di questa poesia, però, è il medesimo della prima commentata ed anche il soggetto è lo stesso: la figlia. Cos'è avvenuto allora, a giustificare questa intravista diversità?
È il cambiamento in uno stato d'animo: la malattia grava ancora sulla persona cara, su chi assiste impotente, ma pare si sia prodotto l'inimmaginabile, pare che la vita abbia cominciato a rifluire.
È avvenuto un semplice sorriso, un segnale inconsistente, ma lo stesso ha subito assunto una connotazione di solidità, un'uscita dal tunnel, di un fermo immagine.
“sull'orlo delle ciglia già sul fondo. gira intorno al cuore, lo trafigge...rinato in un abbraccio; sono sua". La terza strofa che pare non aver mai fine, che non si vorrebbe mai venisse interrotta, sorregge “il peso... dell'unico senso che so”: l'Amore infinito di una madre, simile, per grandezza, a quello divino.
Poiché finora si è parlato, a proposito di questa Autrice, di umano e di divino, di una tematica a nostro parere a lei sempre presente, merita anche di soffermarsi su di un'altra tematica contigua ed affine nella poesia di Manuela Verbasi: quella del sacro e del profano
Ciò in quanto ambedue sono riconducibili ad una medesima cornice, ad una messa in asse di problematiche umane, se vogliamo, ancora irrisolte, o confuse, o recalcitranti, per quanto riguarda la conoscenza, in specie il mondo femminile. Questo non volersi adeguare, oggi che la denuncia può essere pubblica, nei rapporti tra i sessi, ai canoni più prettamente maschili.
La necessità di dare, e di avere, reciproco amore.
In questa Raccolta Manuela ha inserito vari testi che, ad un'analisi alquanto approssimata, parrebbero appartenere al filone dell'Eros. E tali, anche, qualcuno li potrebbe aver definiti. Ma la delimitazione così data non regge appena se ne scalfisca la superficie.
Prendiamone in esame alcune, quali ad esempio la prima che s'incontra: “Fragranza”.
Il nostro sguardo è attratto, prima ancora che avvenga l'auto- ascolto, il recitativo delle due terzine che paiono, per il ritmo impresso, passi di danza a snodarsi, dalla chiave finale. Quel [null'amo più che amarti] riporta, per riferimenti, al celeberrimo verso dantesco “Amor che a nullo amato amar perdona”, ma essa poco ha, per potenza, concisione, rappresentatività, da invidiargli in termini espressivi.
Una poesia ancora, per la brevità di questo lavoro, da analizzare prima della conclusione: “Respirami stretto fra impronte di rosso”.
La richiesta d'amore qui espressa, apertasi in un silenzio interminato di spazi e temporalità, volge, con l'imperativo “guardami”alla fine del secondo verso, al corpo del testo composto di soli distici, dove le enumerazioni assumono veste preponderante. Sono, queste, gli strumenti elargiti dal sacro al profano, tra i quali campeggia e si eleva su tutti la tenerezza amorosa, l'attenzione senza riserve, l'offerta di sé stessi.
Qui la serie di distici assume, con la sua forma preposta all'elegiaco, corrispondenza piena tra essa e l'enunciato, dichiarando l'esistente tema esistenziale.
Il “bacio infinito” che chiude la poesia costituisce, oltre il riferimento leopardiano della visione, che là era senza speranza, la richiesta dell'esatto opposto. Ma solo la richiesta è espressamente dichiarata; il poeta lascia in sospeso l'esito della richiesta stessa riaprendo, così, gli sconfinati spazi.
Vorrei chiudere con un augurio, il più sentito.
Che Manuela Verbasi, e questa Raccolta, abbiano a trovare nell' asfittico panorama della Poesia italiana, finalmente le soddisfazioni che meritano.
Ho letto il tuo libro, mi hanno colpito alcune poesie che lasciano scavi indelebili al lettore attento, il rispetto profondo che nutri per la “donna” e il suo sottosuolo ti fa paladina a difenderne i diritti senza scadere nella volgarità femminista poco costruttiva.
I versi sono intrisi di dolcezza e allo stesso tempo sottolineano una determinazione strutturale che li incide al foglio come sangue alla vena, mai banale il contenuto perché ove pare vi sia un dialogo leggero, questo racchiude una metafora che rimanda all'introspezione.
“[...] Le tue pareti scoscese e le mie valli
strette a pugno nel silenzio
esiliato tra le dita.”
Un viaggio attraverso il quale ritrovare la genesi e la chiave di lettura della vita intima osservando se stessi da un angolatura di esilio.
Oppure [...]Ho gli anni delle mie ginocchia piegate.” è un susseguirsi di stimoli a riflessioni che demoliscono la quotidianità sterile rendendo possibile un dialogo aperto con se stessi nella piena consapevolezza del vissuto.
Che questa raccolta di poesie mi sia piaciuta è evidente ma il piacere va oltre, quando l'evoluzione del pensiero penetra gli interstizi della ricerca e trovano empatie di lettura, il passo che conduce al cammino non è mai uguale, ma spesso si trova nell'orma di un altro.
Buona vita e tanta poesia ai tuoi giorni, con affetto
Tiziana Tius
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