Scritto da © ferdigiordano - Gio, 02/09/2010 - 15:25
Era un’alba anche quella. Come tutte le albe aveva le sue ore, non esatte, ore con poco tempo, un’alba con le ore contate. La prima e l’ultima avrebbero potuto coincidere e nessuno se ne sarebbe accorto. Si entrava in un’ora e si usciva nell’ora successiva, aspetta un attimino, dicevano le coppie negli alberghi ad ore e sgattaiolavano in quell’alba.
Ma le ore di quell’alba non potevano farlo: le luci appena più che fioche, le sveglie e i risvegli, i panettieri e gli autobus più sonnolenti dei conducenti, le strade solo un po’ più attente e i bar senza tavolini esposti, pronti ad esporsi quando le sedie lo avrebbero richiesto. Le fontane che muovevano a gocce in attesa dei fiotti copiosi, le piazze ancora coperte da un lenzuolo di tenebra, tre formiche che in fila sembravano cento, i piccioni che beccavano piccioncine - è l’uovo di colombo -, le automobili stranamente silenziose, la polizia urbana ancora poco vigile, le fermate della metro mancate per centimetri (i centimetri della metro all’alba sono tutti in mano ai metronotte) i metronotte che smontano, i metrogiorno che prendono servizio, i metropolitani che misurano quanto manca per il rientro.
Albeggiava in maniera diversa quel giorno, tanto che un tram arrivato al porto ormeggiò per aspettare la marea. Era un’alba così sciatta e pallida che l’avresti detta albina: piccola, minuta, scontata, un’alba in saldo.
Eppure, quell’alba - proprio quella che, se appena appena chiudevi gli occhi, consentiva voli: un albatros, insomma - messa lì apposta come monumento a tutte le immigrazioni che nascono ad est, anche albanese, anche clandestina, anche entrata senza alcun permesso nel soggiorno, quindi ben accolta, quindi con doppio passaporto, consegnata chiavi in mano al giorno perché trasporti ai mestieri chi di qua e chi di là, ma tutti compiti, compunti, perciò un’alba di rovi, un’alba incerta ma che non poteva fermare i suoi passi, un’alba che avanzava - si sarebbe detta un’alba di più - un’alba così ardita da mostrare il suo petto rosatochiaro e crudocapezzolo. Un petto materno e tranquillo che capiva sempre: comprendeva tutto. Aveva quell’aria ondivaga come di chi trascorre la notte fuori e rientra all’alba appunto.
Ora voi vorreste sapere perché quell’alba non era la solita alba, come quelle che certo raramente avete vissuto fuori da questa lettura. Voi aspettate che io vi sveli il suo mistero e già mi sembra di sentirvi dire ma guarda questo! che crede che noi si stia qua per la sua bella prosopopea, le sue tiritere, i suoi lemmi; no, no, andiamo, lasciamo le lettere come stanno e non portiamo via niente. Epperò non saprete. Aspetterete un giorno ancora e forse domani l’altro vi sveglierete per conoscere, per vedere, per toccare con mano, forse vi telefonere gli uni gli altri, tastando con furia i numeri per fare più in fretta e sapere, sapere!, se anche lui o lei o gli altri s’erano accorti che, avevano notato qualcosa di, magari un raggio sbilenco o un cumulonembo sfarzoso o un crotalo venir fuori da una saittella(*) a dire buongiorno, magari avendo anche lui gli occhi grandi come cocomeri e quella voce impastata che hanno i gufi al sole per la notte insonne, per aver tentato di cogliere l’alba come ho fatto io e sentire quel che mi ha attraversato lo sguardo, sfiorato le dita, mosso un piede e poi l’altro a caduta, il culo pesante, la scarpa destra sciolta del laccio perché il piede, ah il piede!, ha un callo che canta ogni alba, e la cintura che manca di due buchi la stretta solita in vita, la vita che all’alba… no, non vi è dato sapere quel che capita quando lei è con me e l’alba si attacca alla sera.
(*)La saittella in napoletano è la feritoria alla base dei marciapiedi per lo scolo delle acque piovane.
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