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Le cosce di mia zia di Fulvio - legge Ezio Falcomer - prosa

 
 
  Allora dormivo solo in una specie di magazzino. Era una grande stanza buia e forse c’erano i topi o chissà che cosa mi metteva una gran paura:
«Zia! I ladri! Zia!»
E arrivavano le cosce di mia zia attorno a uno slip rosa:
«Qui dietro non c’è nessuno, qui sotto nemmeno e neanche quaggiù in fondo. Adesso dormi piccolino e, da bravo, non chiamare più.»
Ed io, da bravo piccolino, soffocavo l’emozione dei ladri in quella calda e morbida delle sue cosce.
 
   Le cosce di mia zia vestivano una pelle candida e liscia. Erano lunghe, polpose, materne e si chiamavano Teresa.
Sorridevano sempre, bianche e prosperose come le belle cosce di una volta. Avevano occhi chiari e umidi e una voce dialettale e amica che mi voleva bene, proprio bene.
Avevano un grande cuore le cosce di mia zia, ma un brutto cancro se l’è sbranate vive.
 
   Ero un po’ più grandicello quando mi condussero al suo capezzale dove nemmeno un gonfiore di coperta stava a ricordarmi le sue cosce.
Le guance erano tanto smunte da disegnarle il profilo dei denti e gli zigomi così sporgenti da infossarle gli occhi in fondo all’anima mentre i capelli, non più dorati e sciolti, ma intrecciati intorno al capo, m’apparvero come una bianchissima, santa aureola.
M’accompagnavano da lei quando, il male, un poco la liberava e la sua voce tornava amica. Allora le sue gengive pallide si scoprivano in un sorriso tiratissimo, tutto per me…
 
   Mi ci volle qualche anno ancora per realizzare il motivo vero di quelle visite un po’ coatte: mi conducevano al suo capezzale soltanto perché era lei a reclamarmi. Diversamente m’avrebbero evitato lo spettacolo del suo sfacelo. Si decidevano a portarmi solo per farla contenta, per vederla sorridere ancora una volta. A me.
 
   La santa aureola di mia zia non aveva figli e contava ben pochi parenti che, ormai, saranno scomparsi da tempo. Credo d’essere rimasto il solo a farla rivivere e brillare nel lumino che tengo acceso in questa mia intima chiesetta sconsacrata.
 
   Quello, e pochi altri lumini da mantenere accesi, m'invogliano a tenere da conto il sacrestano, bene in regola con la mutua e i contributi. Sin che regge.
 
 
 
 
 
 
(A Franca, che m'aveva pregato di pubblicarlo, scusandomi per il ritardo)


 

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