Scritto da © Manuela Verbasi - Dom, 29/08/2010 - 21:59
Io tornerò
Un giorno, uomo o donna, viandante,
dopo, quando non vivrò,
cercate qui, cercatemi
tra pietra e oceano,
alla luce burrascosa
della schiuma.
Qui cercate, cercatemi,
perché qui tornerò senza dire nulla,
senza voce, senza bocca, puro,
qui tornerò a essere il movimento
dell'acqua, del
suo cuore selvaggio,
starò qui, perso e ritrovato:
qui sarò forse pietra e silenzio.
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Recensione
Questa poesia sembra quasi profetica. Se penso, se pensiamo, all’anno della sua morte, il 1973, avvenuta poco dopo il golpe di Pinochet, potremmo pensare che piuttosto che vivere e vedere il Suo Cile devastato da tanta brutalità, abbia deciso di fermarsi in altra maniera su questa terra. Addormentato ma avvertendoci in anticipo che sarebbe tornato, e rassicurandoci che sarebbe tornato perché nessuno possa dimenticare mai quello che fu il Cile prima che un uomo, tanti uomini, decidessero di razziare parte di un popolo rendendolo schiavo dell’avidità criminale.
“Qui cercate, cercatemi, / perché qui tornerò senza dire nulla, / […] sarò qui, perso e ritrovato: qui sarò forse pietra e silenzio”. Pietra e silenzio!, dice. Pietra come essenza della terra, la sua terra, e il silenzio di chi non necessità più di parlare perché a futura memoria rimarranno le distruzioni di uomini di morte e miseria ma anche, e soprattutto, tutto ciò che di bello ci ha lasciato con i suoi scritti. Potremmo essergli compagni se solo ci considerassimo una pietra accanto a quella che ci rappresenta nella sua poesia. Insieme saremo presente e futuro da tramandare perché nessuno scordi mai le sofferenze di un popolo e le sofferenze di un poeta che ha saputo trasferire, sì, versi declamanti amore perché anche in questi si notano la profondità di un sentire evocativo, e quasi di triste presagio per una fine, che non deve necessariamente considerarsi finalizzata ad un semplice nutrimento del cuore, ma vestita di quel contenuto che comprende ogni campo dei sentimenti umani splendidamente narrati.
La vita di Neruda è stata consacrata al popolo amato e alla terra che ha germogliato tanti figli dei quali ancora oggi si spera trovare luogo di preghiera. Fu uomo anche politico, senatore, che generosamente combatté per diritti civili e uguaglianza tra i popoli. La sua poesia ci travolge la vita così come travolse la sua perché potesse nutrirsi di versi e coi quali nutrire il mondo di quella immensità di immagini che fuoriescono da ogni contenuto della sua poetica visione della vita.
Sarebbe sbagliato fermarsi al godimento dei versi che declamano l’amore. Perché la poesia di Neruda spazia in ogni campo di sentimenti umani. Quelli tesi a contemplare l’amore verso una donna, o a quelli che narrano la vita in quelle pagine chiamate “Residenza sulla terra”, dove ci compiace delle sue denunce tra vita e morte, tra sapienza contadina a cultura universale dettata dalla realtà delle ragioni inopinabili da alcuno. Inopinabili perché raccontano la vita con la semplicità che solo un grande artista com’egli era ha saputo tramandarci. La poesia è anche mezzo di comunicare una denuncia, una vita da non trascurare, un amore per l’arte che non deve andare disperso, un rendiconto di un vissuto che neanche la morte potrà mai cancellare dalla memoria collettiva.
In “navigazione e ritorni” ci delizia con un narrare che rasenta la disperata tranquillità di un anima in pena. In “Ode a un mattino del Brasile” si colgono tutti i “sapori” che il poeta gusta al solo ammirarla, sorridendole e quasi pregandola di non farsi ferire. Quei sapori che sa distinguere e depositare in versi, così come tutti i colori di una terra unica, di un Paese che non necessita di essere interrogato, spiega Neruda, descrivendone i colori tanti ma, nel raccontarceli, ci spinge ad interrogarci su quel che l’uomo dovrebbe lasciare immutato per sempre.
La poesia sul Brasile così si chiude: “… la terra, il cielo, l’acqua / sono pura trasparenza, / il tempo si è fermato / e tutto è dentro il suo scrigno di diamante.”. Possiamo dire ancora così del Brasile? Certo che no. Ma possiamo ricordarci sempre di “Io ritornerò” e magari sostare un attimo sulla sua tomba in attesa di potergli raccontare cosa è mutato, cosa gli uomini hanno mutato, devastato nelle foreste del Brasile. Ne soffrirebbe ma coi sui versi possiamo immaginare e sempre quel che voleva comunicarci e che ci resterà nei cuori.
Poesia di Pablo Neruda
recensione di Vincenzo Atzeni
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