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Gaius Valerius Catullus (Catullo) - Ad Lesbiam

Catullo - Gaius Valerius Catullus- "Ad Lesbiam" - Carmina -V - (Verona 84 a.c./ dopo il 54)
 
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

 Gaius Valerius Catullus 

 
 
 
Recensione
La forma poetica dei carmi di Catullo non lascia spazio ad interpretazioni che possano sospendere, anche solo parzialmente, il significato estetico né quello contenutistico. Nella disciplina della traduzione, in tanti si sono esposti a commenti convergenti per lessico e sintassi ma, spesso e volentieri, altri, divergono sulla sintassi quasi a voler trovare spiegazioni a confutazione di uno o più studiosi che trovavano retorici tanti, troppi passaggi lessicali. Questo per dire quanto la sensibilità individuale dello specialista della materia, sia sempre difforme dal lettore più o meno occasionale.
Restiamo agli esperti. La retorica in se è l'arte del saper parlare, ed esistono tante forme di retorica. Platone, sosteneva che "la parola spesso naufraga quando ha un sostegno visivo". Cosa voleva inendere? Che chiudere gli occhi per ed ascolare un oratore induce a vedere cose che formano sia il pensiero che l'azione. E cioè, senza che l'allievo sia indotto a vedere in un docente il soggetto che è in predicato di essere narrato. "La mancata luce accende l'ingegno e ciascuno udente veste della prorpia esperienza quel che sente e comprende". Nel fondare l'Accademia, Platone voleva, innanzitutto, che oltre al parlare ci si abituasse ad ascoltare. "I dotti attendano e sappiano che troppo hanno da imparare da chi ascoltando desidera poi interrogare". Platone, come Catullo, non ha mai usato la retorica eristica: quella del parlare usando un lessico forbito e poco comprensibile ai più.
Le domande retoriche, invece, hanno una specificità più consona per le persone alla quali vengono poste. Più consona se si vuole stimolare l'interrogato all'analisi, assolutamente inutile quando dalla domanda non si può ricavare che la risposta insita nella domanda. Domanda retorica, appunto.
Catullo, dunque. Ci è stata proposta "Ad Lesbiam". Nessuno potrà dire che la forma poetica sia di difficle comprensione, anzi. Catullo ci propone in questa, come in tante altre, il tema dell'amore e di questo il significato più estensivo possibile. Meglio dire subito che ai tempi l'amore non era necessariamente tra un uomo e una donna, ma contemplava l'unicità sia del pensiero dell'amore che dell'azione senza distinzione alcuna. Già il titolo ne è la prova. Per chi ha letto Saffo sarà molto più semplice entrare nei meandri dell'amore universale, senza paradigmi che possano inficiare i sentimenti puri e veri. Catullo ha la ferma convizione che mai un giorno della vita debba essere sprecato senza che l'amore abbia spazio. Il tempo degli uomini, sostiene, è infinitamente breve per spendersi ad in terrogarsi sul cosa, come e con chi dedicarsi all'amore. Il paragone tra notte e giorno, per indicare la brevità della vita, è il costrutto per enunciare il nulla che deve andar perso. Quel nulla che toglie spazio al vivere dei sentimenti che, in qualche modo, possono o devono prevalere sui limiti che il tempo della vita ci impone. Questo non deve portare il lettore ad essere fuorviato rispetto alle altre attività della quotidianeità. Ma, Catullo, non intende inerpicarsi nell'analisi delle altre cose della vita. Almeno per quel che in "Ad Lesbiam" come in tanti altri ci gratifica leggerlo
"I soli possono tramontare: / noi una volta che muore la nostra breve luce, / si deve dormire una notte eterna." Forse che una simile forma poetica necessiti di traduzione e che non riesca a penetrare nel nostro cuore? Si può non intendere il significato intrinseco dell'ampiezza dell'amore che include, sì, la passione ma converge nel pieno del sentimento che si palesa nei versi seguenti quanto i baci diventano sazietà di vita. Perché nell'amore inteso da Catullo, l'amore è vita, quella da vivere senza rinunzia alcuna e senza che coloro che osservano debbano considerare se, come spesso accade, intendono giudicare o sbeffeggiare.
è vero, inoltre, che Catullo quando si riferisce a coloro che giudicheranno, vuole anche e soprattutto, significare quello che in altri carmi ha bene esposto.
Non a caso, Catullo, riprende da Omero ed altri il pensiero che non lo sovrasta ma che, casomai, trova assonante al suo intendere. Gli ellenici ci hanno consegnato una vita di versi che attraverserà l'immortale per poi rinascere per insegnare l'arte del sentimento e della ragione della poesia.
Non è, si badi bene, che Catullo si riferisca alla libidine ma, casomai, a tutto ciò che la libidine esclude. Quando fa riferimento alla quantità di baci, vuole intendere e far comprendere che sono, sì, baci, ma che hanno il contenuto degli elementi che li vivono, quei contenuti che non sono privi di vita immortale né di echi lontani. Sono, semmai, la continuazione ideale di un amore che continuerà oltre la morte.
Catullo pone anche il problema che, a volte, si può non essere corrisposti o vissuti per quel che si vorrebbe, e se ne duole. Segue per lui il consiglio di alcuni che lo invitano a non rincorrere ciò che si sta per perdere, ma di lasciarlo andare, anche con sofferenza perché se l'amore che egli intende non è corrisposto non è degno di chi quest'amore così inteso tende a rifiutare.
 

poesia di Gaius Valerius Catullus (Catullo)
recensione di Vincenzo Atzeni

 

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