Le "raffinate rappresentazioni lineari del mondo" si chiamano genericamente la mimesis, cioè l'imitazione del vero. Ma non è che dai primitivi all'impressionismo ci sia solo la mimesis. Questa trova il suo apice nella prospettiva rinascimentale e nasceva da una esigenza di realismo legata all'autorappresentazione di una società progressiva e orgogliosa dei propri traguardi.
Questo realismo si opponeva all'astrazione romanica e alla sua funzione simbolica di trasferire nell'aldilà il possibile godimento dei beni spirituali, dato che quelli terreni erano pressoché inesistenti. La loro pittura era perciò astratta, ultraterrena nelle intenzioni e fatta di grandi à plat cromatici, circoscritti da linee forzate, spesse, come quelle, tecnicamente inevitabili, delle vetrate. Grandi stesure di colore di una pittura che rappresentava il Paradiso, non l'uomo. Appunto, macchie gigantesche legate strutturalmente alla mancanza di luce degli ambienti sacri romanici. Mancava la luce perché le finestre erano troppo piccine e le finestre erano piccine a causa della volontà di costruire in pietra (= eternità) la casa di Dio. E il peso della volta in pietra, cioè della spinta, imponeva, in un tempo in cui le conoscenze della statica erano nulle, mura ciclopiche, che riducevano a fessure le apertura delle finestre. Di qui i colori sgargianti del romanico, dalla necessità di renderli visibili anche al buio.
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