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Little killer - isher

Ho sempre pensato che per parlare di me dovessi essere interrogato.
Senza una domanda non ho mai sentito il desiderio di farlo, però la dottoressa ha insistito, dicendomi che mi sarei sentito meglio, ma io sto già bene.
Pensavo solo a sparare. Questo mi avevano insegnato a fare e questo facevo, anche bene. Gli altri non avevano un volto, se per volto – come mi ha spiegato la dottoressa - si intende un viso cui attribuiamo un’espressione e dei sentimenti simili ai nostri.
Quello che avevano era solo una faccia su un corpo animato, un’immagine che tante volte quando mi si presentava dinanzi nella mia mente provocava come prima reazione quella di premere il grilletto; sapete, l’Ak47 – perché così si chiama, me lo ha detto il Sergente - è facile da usare basta solo sfiorarlo e lui centra quasi da solo il bersaglio, è sufficiente puntarlo dinanzi a sé.
A dire il vero il Sergente la prima volta che lo usai mi schiaffeggiò - come faceva mia madre - dicendomi che lo tenevo male, storto, troppo verso sinistra.
Aveva ragione, infatti quel maledetto vecchio che cercava di scappare non lo avevo ucciso subito al primo colpo. Avevo sparato sì, ma la raffica mi era sfuggita verso sinistra e quel vecchio, pur colpito alla schiena, continuava ad allontanarsi barcollando sulle gambe ed io avevo già sprecato quasi mezzo caricatore. Mi ricordo solo che dovetti rincorrerlo fin quasi al limitare della foresta per finirlo con una raffica alla testa ed il fucile mi pesava così tanto, mentre dietro il Sergente continuava ad urlare e sentivo anche gli altri che mi prendevano in giro ridendo, chiamandomi “cucciolo di antilope”; ma erano più bravi solo perché erano più grandi di me.
Imparai presto però, o sì che imparai. Solo tre settimane dopo quando ce ne andammo dal villaggio di Bisango ormai mi rispettavano.
Ero stato bravo. Mi ero proprio piaciuto; due, ben due insieme con una stessa raffica ed uno di loro aveva anche in mano un macete.
Dopo il villaggio di Bisango anche il Sergente era contento di me, mi chiamava pure “little killer” ma non perché avevo colpito quei due ma perché un’altra volta in un altro villaggio, mentre stavamo per andarcene, avevo scovato quella donna minuta ed il suo bambino nascosti in una buca usata per i bisogni sotto il pavimento della capanna. Era uno spazio angusto cui si poteva accedere solo passando da fuori e strisciando sotto la capanna. Gli altri non c’erano entrati, non volevano sporcarsi. Io invece ci passavo e non avevo paura di sporcarmi ed avevo capito subito che qualcuno avrebbe potuto rifugiarsi lì sotto; anche nel mio villaggio quando giocavo con Nascua mi nascondevo spesso sotto la capanna vicino al letame perché sapevo che, a causa della puzza, nessuno veniva mai a cercarmi lì ed io non avevo svelato a nessuno questo mio nascondiglio segreto. E così li avevo trovati entrambi.
Ero orgoglioso del mio Ak47.
Quando quei bianchi me lo presero piansi, ma io e gli altri due eravamo rimasti soli.
Eravamo inseguiti ed il Sergente era andato troppo avanti con gli altri e noi tre non riuscivamo a tenere il passo, le armi pesavano troppo e nella foresta si impigliavano dappertutto; ma non potevamo lasciarle, il Sergente ci avrebbe picchiato come faceva sempre e deriso davanti a tutti.
Quando calò la notte ci fermammo. Eravamo stanchi. Ialud cominciò a piangere in silenzio, come faceva tutte le notti perché aveva paura del buio, io invece non lo temevo; mi addormentavo masticando le erbe che ci dava il Sergente e facevo sempre sogni strani che non ricordavo mai ed al mattino mi svegliavo sempre tutto sudato.
Quando ci svegliammo capì che quelli che ci inseguivano erano passati oltre. Allora dissi agli altri che forse avremmo dovuto tornare verso il sentiero, così il Sergente ci avrebbe trovato; perché certo sarebbe tornato indietro a cercarci.
Nessuno di noi sapeva in quale altro posto andare.
Io non ricordavo neanche il volto di mia madre. L’ultima volta che l’avevo vista stava andando al pozzo portando con sé mia sorella Musiac e mi disse di aspettarla lì davanti alla capanna e di non muovermi. Io non mi sono più mosso, ma lei non è più tornata. Sono invece arrivati quegli uomini al villaggio e mi ricordo solo che piangevo e la faccia del Sergente che mi afferrava per un braccio e mi sollevava, mentre sentivo colpi e urli dovunque ed avevo tanta paura.
Io e gli altri camminammo un altro giorno nella foresta, ma non incontrammo il Sergente. Arrivammo invece vicino a una strada dove c’era tanta gente – una fila interminabile – tutti che camminavano portando qualcosa con sé.
Avevamo tanta fame e tremavamo tutti, senza il Sergente nessuno di noi aveva le erbe che lui ci dava, che quando masticavamo ci facevano rilassare e non sentire la fame.
Quei bianchi, due uomini e una donna, apparvero come dal nulla; scesero da una jeep e si avvicinarono a noi. Io e gli altri rimanemmo come imbambolati a guardarli, non avevamo mai visto una pelle così chiara. Non erano armati. Ci dettero del pane.
Gli altri lasciarono subito cadere a terra le armi; anch’io per poter mangiare lasciai andare il mio Ak47 e quella donna bianca lo prese subito. Io l’avrei rivoluto indietro e nonostante tremassi tutto la pregai, le urlai di rendermelo e che se non lo avesse fatto il Sergente, come altre volte era accaduto, mi avrebbe picchiato perché lo avevo lasciato in mano di altri, ma lei, come mia madre che mi tolse per sempre il bastone con cui giocavo perché avevo colpito mia sorella Musiac, non me lo restituì e anzi lo mise sul tetto della jeep dove non arrivavo anche perché ero troppo debole per arrampicarmi e allora … mi misi a piangere.

isher


-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione Paolo Rafficoni
-Racconto di isher
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