A.D. 1755, 8 Novembre Parigi
Io, figlia di Narciso, un angelo bellissimo e folle, simile al demonio, e di Eco, la ninfa morta per il suo amore; Questo era il racconto che faceva mia madre quando parlava della mia venuta al mondo, lo ripeteva ogni giorno, ogni volta che ve ne era la possibilità. Ma Narciso non era un angelo e non era folle, per la mitologia era solo un bell'uomo, dal potere ipnotico probabilmente e dalla capacità di farsi amare grazie al dono della bellezza ch aveva avuto. Era lei la pazza, lei che mi ha dato il suo nome e che mi ha messo al mondo per proseguire nella sua sventura. Per vent'otto anni, sono cresciuta con l'ossessione di non essere mai alla sua altezza, di non essere amata, nè capita. Lei, la bella Kilena, violinista e cantante di corte, scappata da Kiev, scappata da Londra, da Parigi, da San Pietroburgo, da Venezia. Lei. Scappata: dall’uomo che aveva ucciso, dalle corti che l’avevano amata, dalle persone che aveva tradito, dagli intrighi, dalle passioni, dagli addii. Fuggita da quell'attore di teatro che l'aveva stregata, "Madhreth" mi suona strano persino scrivere il suo nome, oggi che per la prima volta lo conosco e lo scrivo, oggi che per la prima volta ho strappato il velo di Narciso ed Eco per leggere nel profondo di entrambi. Rileggere le lettere dedicate a Varyena, a mia madre mi ha reso inerme, mi ha portato una sorta di apatia senza fiato dal quale difficilmente sono riuscita a riemergere. Lei fuggita da lui, dalla sua Venezia probabilmente non sapeva nemmeno di avermi in grembo. Lei l'artista, lui l'attore. Si sono conosciuti per caso, amati, disprezzati, adorati, odiati e di nuovo amati e tutta la loro storia correva su frammenti di musica ed arte, un filo traslucido ricco di note e poesia che li univa e li divideva riportando entrambi in balia della vita stessa. Eco e Narciso, Varyena e Madhreth: i miei genitori. Lui, era sicuro di sé, amava per essere riamato, filosofo, ubriacone, figlio del suo tempo. Prendeva il piatto della vita cercando di mangiare solo il meglio. Assenzio, donne, poesia le sue migliori carte e le giocava tutte, giorno per giorno. Lei, era vittima della sua stessa personalità, della sua mente, della Kilena in cui poi dopo la mia nascita si è trasformata, la dannata dalla splendida voce, la Medea della musica, che viveva per le note e le odiava con la stessa passione. Cresciuta alla sua ombra, bacchettata dalla sua rigidità, dal suo essere glaciale, come la neve delle nostre montagne. Kilena, Varyena, Madre e Sorella pensarti adesso mi crea disagio ed il nome che porto uguale al tuo mi soffoca come un corsetto troppo stretto.
Ti chiamavi Varyena è mi hai chiamato Varyena. Perchè? Volevi ricreare te stessa? Volevi che ti assomigliassi nella tua fredda trasparente e labile lucidità?
Due gocce d'acqua, due sorelle. Quando a quindici anni mi portavi nei teatri del vecchio continente insieme a te, nessuno credeva che fossi tua figlia; dal palco ci guardavano estasiati e mandavano fiori e doni ad entrambi, quando mi portavi alle feste, dai tuoi amanti, dai tuoi protettori, quando andavi a corte al servizio dello zar, tutti pensavano fossimo Kilena e Varyena, due sorelle, due artiste particolari; lo credevo anch'io sai, credevo che tu fossi Kilena ed io la tua piccola Varyena, ma non avevo capito nulla. Ti sei sempre mantenuta bene madre, ancora adesso quando guardo il tuo ritratto è come se mi fissassi in uno specchio, solo il colore dei capelli ti tradiva, andava ad ingrigire quel bel rosso che ricordava tanto i quadri del Tiziano, e tu li coprivi con qui colori nauseabondi, con quelle tinture, coi belletti e con le parrucche, che spesso mi costringevi a indossare, quando andavamo in scena, così da apparire uguali da lontano, anche se le tue movenze erano più languide e vissute ed io apparivo solo una bambina, una donna in miniatura con la freschezza della mia età. Il tuo volto, livido di rabbia quando gli uomini dicevano che ero un fiore che stava sbocciando, quando riservavano a me le occhiate lascive e languide che sino a pochi anni prima erano per te. Io non lo volevo Madre, non volevo imparare a suonare la viola, né imparare a cantare solo perché la mia voce era come la tua, non volevo andare alle corti, nè esibirmi dinanzi a tutta quella gente estasiata, l'ho odiato per anni, ho odiato il vagabondare, il non essere normale, il non poter vivere come tutti, ma adesso lo amo, ho imparato a farlo col tempo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, mi è servito per continuare ad andare avanti, per non impazzire, nutrirmi di queste passioni, nutrirmi del pubblico, della musica, del palco, delle luci e dei fiori e dei biglietti,che trovavo nel camerino la notte, fagocitavo ogni cosa gli applausi e le occhiate lascive erano diventate il mio pane quotidiane ed ho imparato ad apprezzare qui regali che mi facevano sentire più donna e meno bambina, più accettata e gratificata, ed ho imparato a concedermi, come avevi fatto tu un tempo, a chi accendeva i miei sensi e risvegliava il mio corpo, come una cortigiana, come una prostituta di palazzo, lo facevo per sfuggire alle tue urla quando non volevo studiare il violino, ai tuoi schiaffi ogni volta che mi rifiutavo di imparare una partitura, di cantare, perché ero stanca, perché ero solo una bambina ed avevo voglia di giocare, con la vita e con gli uomini. Mi parlavi di mio padre, di Narciso, della sua passione per l'arte, ed ogni volta i tuoi occhi si illuminavano di una luce strana, un misto di passione e rimorso, poi il discorso ti sfuggiva di mano e mi parlavi di tuo padre, di mio nonno, della sua musica sublime e della sua disperazione e di tua madre che non hai conosciuto ma che di certo hai odiato perché con il suo gesto ha distrutto la tua vita e la tua mente. E' un malattia madre, un morbo irruento che l’ attanaglia, che la sconquassa, e che morde ed avvolge anche la mia. Anche la mia madre... Anch'io sento la voce, anch'io sento il suo canto, dice di chiamarsi Kilena, madre, pensavo fossi tu che mi suggerissi spesso cosa fare, che di tanto in tanto mi guidassi nelle decisioni, che volessi prendere il controllo del mio corpo, della mia vita anche adesso che sei sepolta in un cimitero fra le montagne, eri tu Kilena per me... ed invece adesso so, che Kilena tormentava anche te, che è arrivata a prendere ogni controllo e che arrivata a farmi da madre. Tu eri Kilena perchè Kilena era te, e mi fa rabbia e tristezza, profondo sconforto, saperlo solo adesso. Io ero la tua speranza, ero la Varyena che tu non potevi più essere, inacidita dalla tua pazzia e dalla tua solitudine; e non so se amarti di più o odiarti sino a maledirti perché quel velo di lucidità che copriva la mia vita e la mia mente pare essersi ridotto ormai a mille brandelli.
Naranya
-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano -Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi -Supervisione Paolo Rafficoni -Testo selezionato da Francesco Anelli -Editing: Alexis -Racconto di Naranya -tutti i diritti riservati agli autori, vietato l'utilizzo e la riproduzione di testi e foto se non autorizzati per iscritto
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