I parte
Nulla, nulla provavo in quel momento.
Ero seduto su quella sedia, in quella stanza buia e umida illuminata soltanto dal piccolo lampione che fragile e timido diffondeva la sua luce sulla strada. Il mio sguardo era perso nel vuoto e dentro nessun pensiero osava disturbare quella quiete fittizia che nascondeva turbinii di sentimenti folli e contrastanti. Sentii freddo, ma non mi alzai. Rimasi con le braccia appoggiate sulle ginocchia e le dita delle mani incrociate, come fossi una statua di marmo. Imperturbabile era il mio sguardo così come il mio cuore, non osavo guardare dentro me stesso per paura di rivedere immagini che in un impeto di furore furono azioni. Forse desideravo soltanto che il mio corpo divenisse nulla, come ciò che albergava il mio petto e la mia testa. Sparire. L'unico desiderio espresso da un uomo afflitto da colpe troppo grandi per essere cancellate.
Mi alzai. Il mio viso e le mie mani erano sudice, ma nel buio di quella stanza non riuscivo a distinguere quei colori e quelle sostanze che deturpavano e solcavano la mia pelle, non me ne curai e mi diressi verso il bagno per sciacquarmi. Mentre ero chino sul lavabo sentii come un'ombra alle mie spalle, si avvicinava e poggiandosi sulla mia spina dorsale occludeva la cassa toracica impedendomi il respiro. Rimasi a fissare lo specchio di fronte a me per qualche minuto; ciò che vedevo non era il mio viso: era il nulla. Alienato, estraniato da me stesso non captavo più il mio essere, non percepivo il sangue scorrere nelle vene, il cuore battere; tutto in me si era fermato ad un istante immoto che la mia mente aveva cancellato. Era come se non esistessi. La mia anima era stata venduta ad un demone mercenario e famelico, dilaniata e contesa come una carcassa, divorata dalle iene e gli avvoltoi che risiedono nel profondo della mia psiche.
Così mi sentivo: un corpo esangue.
Distolsi lo sguardo da quel maledetto vetro che mi obbligava a guardare dentro me stesso con un gesto nevrotico, afferrai il mio mantello con forza, provocandogli uno strappo, lo indossai e mi diressi verso la porta di quella bettola che per anni era stata la mia casa, il mio rifugio, colmo di ricordi felici e di piccole gioie che non potevano più appartenermi, non avrei osato sporcare ancora la purezza di quei pochi istanti sereni. Diedi l'ultimo addio a quella casa baciando l'aria satura di me e della mia vita, lì lasciai ciò che di buono era esistito di me. Me ne andai per non tornare mai più.
II parte
Chiuso dietro di me l'uscio del Passato, mi decisi a percorrere strade totalmente nuove ed ignote.
Per le vie della città notturna ormai non vedevo altro che manichini: tutti gli uomini e le donne che si apprestavano a trascorrere una serata spensierata ai miei occhi apparivano solo fragili e vuoti contenitori di vetro i quali occhi trasmettevano alienazione e fittizia gioia di vivere. Per la prima volta aprivo gli occhi sul mondo e sulla Natura umana, mi nutrivo avidamente delle immagini che mi si ponevano innanzi tentando di riempire la vuotezza del mio essere con le infinite riflessioni che mi costringevo a creare. Camminavo senza una meta precisa e i miei passi erano repentini e continui, sudavo seppur avvolto dal gelido vento invernale ed in mezzo alla gente che affollava la via sentivo di essere solo. Fuori di me cercavo ciò che avrei potuto trovare soltanto al mio interno: il motivo di quell'alienazione dell'uomo che scaturisce nella pura Follia. L'avevo studiato attraverso i dipinti di grandi maestri d'Arte e attraverso il pensiero di filosofi e scrittori, ma ne avevo anche fatto esperienza. Mi rifiutavo ancora, però, di arrendermi alla mia attuale condizione e niente avrebbe potuto arrestare la mia corsa, quella notte.
Mi scontrai con un bambino che correva verso il proprio padre e nel suo sguardo puro e spaventato vedevo una immagine orrenda di me, i lineamenti erano trasfigurati fino ad assumere le mie sembianze, un ricordo, come un fulmine, mi trafisse il cranio e caddi al suolo gridando. Il bambino pianse e corse via, ma nessuno a parte lui udì il mio terribile urlo, il cuore pulsò violentemente dentro al petto, come se si preparasse ad un' esplosione ed in quell'attimo desiderai fermamente l'annullamento del mio spirito.
Con il capo dolorante mi recai in una locanda poco distante, ero esausto ed il Sonno stava chiamandomi a sé. Gli incubi di quella notte furono atroci, sognavo massacri, inseguimenti ed ogni rumore esterno penetrava il mio corpo come un aculeo acuminato, qualcosa di terribile stava emergendo e avrebbe cambiato per sempre il corso della mia esistenza.
III parte
La notte trascorse in un sol colpo quando finalmente riuscii ad addormentarmi e mi svegliai in una lurida stanza di osteria. Il lerciume di quell'angusto abitacolo sembrava rispecchiare ciò di cui la mia anima era pervasa in quei giorni. Ero stordito da un dolore lancinante alla testa e delle immagini confuse creavano un pandemonico caos dentro al mio cranio. Il mio cuscino era fradicio di sudore e di lacrime, i miei occhi gonfi di pianto e il mio viso grondava di sangue. Guardandomi le dita confermai il mio sospetto di autolesione, ma non ricordavo nulla della sera precedente. Qualcosa aveva turbato la mia psiche e mi aveva inaspettatamente indotto a lasciare la mia casa e, con essa, la mia vita.
Decisi di scavare nell'intimo dei miei ricordi e lo feci di fronte ad uno specchio, mentre mi pulivo il viso e mi liberavo dal sangue di cui mi ero macchiato indelebilmente, la mia mente continuava a rifiutarsi di fornire una spiegazione ai miei folli atti di quegli ultimi giorni, ma ad un tratto qualcosa dall'esterno colpì la mia attenzione.
Sentii un riso femminile, non sapevo di chi fosse, ma mi era stranamente familiare; mi affacciai.
Vidi una donna vestita a lutto accompagnata da un uomo ed un bambino, la sua risata portava in grembo il seme di un dolore straziante, un dolore che conoscevo anche io.
Mi sporsi per osservare la donna finché il suo nome mi apparve chiaro e quasi inconsciamente lo gridai.
La donna si voltò verso di me ed in pochi istanti il suo dolce sorriso, quello di chi per un attimo ha ritrovato la serenità, scomparve nel nulla lasciando il posto ad un'espressione macabra di terrore: i suoi occhi si spalancarono e dalla sua bocca fuoriuscì un urlo agghiacciante ed acuto che mi perforò le meningi, i muscoli del viso si contrassero in modo mostruoso, tanto da trasformare quel bel viso da ninfa in una maschera da demone latrante. E gridò il mio nome, lo fece fino allo svenimento.
Fu in quell'istante che presi coscienza del mio passato e del terribile atto di cui fui fautore: omicidio. Avevo ucciso una donna, e la dama incontrata il giorno prima era sua sorella, ma la cosa che più mi straziò il cuore fu sapere che colei che avevo ucciso era mia moglie.
Oggi il suo ricordo mi distrugge e sgretola gli ultimi brandelli di quest'anima dilaniata e macchiata del sangue di un innocente e ancora, dopo tre anni, cerco di ricordare il perché della mia estrema azione. Dopo essere stato catturato fui processato e condannato all'isolamento in un ospedale psichiatrico, quello in cui tuttora alloggio, forse nessuno leggerà mai questi miei scritti e nessuno mai tenterà di capire e di aiutarmi a capire: un "folle" non ha voce in questa società di automi, per questo ho decido di seppellire con me questi diari, questi frammenti di memoria che mi restano, e li porterò con me fino alla Morte, la morte fisica intendo, poiché la mia anima è perita quel dì, insieme alla creatura che più ho amato e venerato.
W. J.
Alexis [ThrasHAleXiS]
-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Supervisione: Paolo Rafficoni
-Editing: Rita Foldi
-Racconto di ThrasHAleXiS
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