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Prosa e racconti

Io quantistico

Lei, l'invito - nietzschiano o pindarico che fosse - a diventare ciò che si è non riusciva quasi a capirlo. C'era quel "ciò" che la lasciava perplessa. Come se si fosse un'unica cosa, una struttura coerente e coesa, una pietra dura.
Lei si sentiva piuttosto una particella delocalizzata, che di quando in quando un qualche strumento di misura costringeva in un nuovo stato, con le note conseguenze paradossali che ne derivano.
Avveniva poi in genere che lo stato in cui, per così dire, precipitava, fosse quello che più si confaceva al casuale osservatore - ansia di compiacere, direbbe semplicisticamente chi non fosse avvezzo alle teorie quantistiche.
Comunque, uscendo dalla metafora, che si sa, non regge mai ad essere tirata troppo, questo era quello che sentiva accaderle: di precipitare, a seconda dell'interlocutore, in un possibile sé, una possibile rappresentazione di se stessa, qualunque cosa si intenda con questa locuzione. Tutte ugualmente vere, s'intende, tutte autentiche, ma diverse e persino contraddittorie fra loro.
E di questa sua pluralità, di questo far dipendere la sua rappresentazione dall'altro, lei era, ma sì, diciamolo pure, orgogliosa.
 
 

Gli occhiali a specchio

Tom Smith era un ex ispettore di polizia, di un comune commissariato della città, collocato a riposo anticipatamente per i suoi gravi problemi di salute, dovuti alle molte sigarette fumate ogni giorno e che avevano finito per impedirgli di respirare agevolmente. Così si era trasformato in "topo" d'archivi giudiziari, ai quali aveva non ufficiale accesso, grazie alle vecchie amicizie allacciate quando era in servizio. Cercava, per conto di scrittori di gialli, thriller e storie horror, stralci di rapporti o sentenze su fatti di sangue del passato, archiviati al termine di infruttuose indagini che furono svolte al tempo in cui avvennero oppure a seguito di sentenza passata in giudicato. Fatti cruenti da sensazione o mistero. Aveva già fornito spunti per racconti ma, a tuttora, niente di veramente eccezionale, almeno per i suoi committenti. Durante una delle sue ricerche, in una delle stanze dove conservavano i documenti più vecchi, che parevano dimenticati dalla burocrazia giudiziaria, si imbatté per caso, come pare sia di prassi nelle cose di eccezione, in un fascicolo cartaceo legato con spago grosso alla regolare cassetta dei reperti e con la indicazione dei dati salienti sulla copertina: Omicidio Sue One Saint, 23 marzo 1766; Autore sconosciuto; Indagato n.n.; Esito procedimento: archiviato. Dopo tanto tempo il fascicolo avrebbe dovuto essere distrutto ma, inspiegabilmente, era lì. Polveroso in disordine apparente, ma sul ripiano dei documenti conservati. Dette una scorsa alle prime pagine del rapporto: vittima una donna di circa quaranta anni, nubile prostituta, uccisa a coltellate, in un vicolo della zona peggiore del più tristo quartiere della città. Nessuno reclamò la salma, nessuno si presentò a testimoniare; mai trovata l'arma del delitto.

Cose Così [in un pensiero]

Così t'invento,
ti rivedo a stringerci nelle spalle dentro le ore, e inizio a respirare allegra, a farmi strada muovendo avanti le mani, a togliere le nebbie che m'impediscono di vederti ancor lontano.

Amore mio aiutami

Alla lezione di venerdi, Stefano Franco Sardi ci ha regalato questo bellissimo brano:
 
[stai zitta un istante] 
Ecco ora che finalmente mi hai dato retta. Il tuo silenzio però mi trova spaesato, impreparato.
Forse ti ho chiesto la cosa sbagliata.
Probabilmente, è perchè ho ancora i meandri della mente, occupati dall'eco delle tue parole.
Finalmente ho disponibile uno spazio mio, verbale si intende, ma è come tornare alla casa di campagna, dopo tutto l'inverno. Ragnatele e polvere.
Ora quello che volevo dire, che mi era ben chiaro in testa, non lo è più.
Mi sembra un piccolo mucchietto di parole scritte piccole piccole su un foglio enorme, o come la parola fine scritta su un libro di tutte pagine bianche. Ma si potrebbe dire anche l'opposto; cioè, che ciò che vorrei dire è diventato improvvisamente enorme, un solo carattere, è già più grande della pagina che ho a disposizione.
Che confusione è esplosa nella mia testa!
 
L'istante è già passato. Vedo che la tua mimica facciale sta assumendo la configurazione di chi sta per dire qualcosa. Cerco di precederti e butto lì un: “allora”. Niente di più però, perchè nella paura di non riuscire a precederti, ho emesso il suono senza prima caricare a pieno i polmoni, quindi, anche ben avessi voluto aggiungere qualcos'altro, non avrei avuto più aria.
Lo scopo, comunque, è stato raggiunto. Tu non hai ripreso a parlare; per il momento.
Ma devo ripartire immediatamente, o perdo l'attimo. 
Sento che il tempo è scaduto; se non dico qualcosa, faccio anche la figura dell'imbecille.
 
Lei tace e mi guarda con aria di sfida.

Omaggio a tutte le donne

Avevo gli occhi spenti e ciò che guardavo era senza colore e luce, vedevo solo ombre evanescenti, sfumanti, senza contorni. Le mie mani cercavano tasti nel buio, trovavano solo un nulla nel vuoto e tutto il corpo si perdeva nella vasta e profonda conca dell’intangibile. Come potevo tornare all’alto di una visione chiara se non avevo più braccia e portavo il capo chino? Le ore sono polveri consumate nel dolore, sono menzogne di punte acute e penetranti e traboccano d’inutili attese. Ogni desiderio è piacere se nasce e non resta, ma in me l’odiosa dimora dell’irraggiungibile mi pietrificava l’anima in uno stampo di ferro ghiacciato.
Poi d’improvviso i miei occhi si sono aperti ed hanno visto; oggi ciò che guardo mi concede un’armonia di vita esemplare, un dono plasmato offerto al pensiero, un compiacimento di una visione di bellezza insperata. I miei occhi adesso guardano figure di fiamma che scaldano lasciandomi lontano il ricordo d’essere stato inutile e senza passioni. Povero me se non avessi visto in tempo questi Angeli dalle mani più belle delle ali e le labbra di cuore d’invito all’amore! Povero me se non avessi visto i loro occhi più brillanti di stelle e più profondi di tutti i mari; se non avessi anche solo sfiorato la loro pelle dal roseo colore del sole e dal seducente profumo dei fiori! Nelle mie gioie si esaltano suadenti curve e contorni di luci che seguo anche nelle notti più scure. Amo le donne come me stesso scolpito di pura bellezza, amo le donne come me stesso scolpito in diamante prezioso, come me stesso all’incontro dell’anima vestita di veli. Sono Angeli venuti dal cielo e mai nessuno potrà indurmi ad accettare un pensiero diverso!

Cose Così [il sogno]

Nell'età in cui ripiego gli aquiloni, salto da una foglia di ninfea all'altra e provo ad arrivarti.
E' un lago fermo quello dei miei giorni, scacco verde rame, tra canne di palude.
Un tango figurato, senza musica dunque, il ballo a sera.

Boccheggio nel sogno in cui tu non sei ed io sono come ti sento. Non leggo il senso, di tre locali chiusi, di queste mie lacrime facili, fragili.

Soffia alla campagna ondata, vento e spettina. Scarnisce il vetro nell'occhio, il male dentro a satollarsi.

Ho la tua voce a farsi sciarpa bianca, strada in discesa al centro della schiena.

[con te sembra di stare sopra un'altalena,
ma forse va bene così]

Manuela

 

La tua melodia

 
 
É notte, il tempo si è fermato, cammini in questa città straniera che sa di medioevo e spezie. I tuoi passi ti portano a perderti in un labirinto di vie sconosciute. In distanza senti i rintocchi di un orologio che annunciano la sera. Una melodia si alza da una via laterale, incuriosito ti infili nella via e segui quel suono. Come il pifferaio magico, il suono ti calamita verso la sua fonte. Attraversi vicoli bui, ti infili in androni che si immettono in vie parallele, passaggi costruiti quando il ghetto si estendeva ancora tra queste antiche case. Ora il suono si fa più forte, riconosci la melodia, l'hai ascoltata numerose volte. Sbuchi su una piccola piazzetta dove il selciato si è arreso a zolle di terra sconnessa. Seduto dietro a un violoncello, con la schiena che rasenta i mattoni di una chiesa, un musicista anziano fa scorrere l'archetto sul suo strumento.
Corde che gemono, che emettono un suono greve, enfatizzato dai legni della cassa.
E la suite N°1 di Bach per violoncello, come una bolla di sapone, si stacca dallo strumento e si diffonde nell'aria. Tu, riverente di tale magia, ascolti con la tua anima che si stacca dalla realtà esterna. La musica ti rende leggero, ti fa salire verso il cielo. Come un bambino che osserva una vetrina di dolci, ti senti struggere tutto. Un pensiero di gratitudine prende lentamente forma nella tua mente. Pensi a come sarebbe ancora più grigia la vita senza la musica. Ti avvicini, in punta di piedi al musicista, deponi una moneta tra il velluto liso della custodia dello strumento appoggiata a terra, poi lentamente, religiosamente, con la musica ancora nel cuore ti allontani, e il labirinto medievale della città ti inghiotte.

Viaggiatori 4

Io l'ho visto il suo cuore, un momento in cui gli ho attraversato lo sguardo, in uno dei suoi momenti da piangere, quando qualche pensiero l'ha disarmato, spogliato, nudo senza difese alla malinconia.
Lui si riveste subito, ché un Uomo non può essere tenero, i lupi se lo mangiano, ho pensato che era un bambino, le ginocchia sbucciate nascoste nei pantaloni, tanta voglia di giocarsi la vita. Ho visto il suo cuore quando me l'ha aperto del tutto, ed ho potuto avvolgermi d'amore, il mio più grande amore. Ho visto il suo cuore nel momento esatto in cui l'ho sentito perduto, disabituato alla dolcezza, arrendersi poco a poco, poggiare alla parete le lance e portarmi fiori alle labbra, con le sue. Parole indispensabili, silenzi. E' come se l'avessi sempre amato, sempre saputo, ogni suo gesto, ogni desiderio, interpretato io. Lui ha visto il mio cuore, lo tiene con entrambe le mani, per non farlo cadere. Ché il mio cuore è un macigno e pesa di amarezze stratificate. Lui legge, il mio cuore senza fiato, poggiandoci le dita lo fa tremare d'amore incontenibile.
 
 
 
 
 

La tua bocca

Ti guardo, ti sto vedendo, vorrei, pur così al di là, i tuoi occhi sorridermi. La tua bocca aprirsi, arricciarsi il labbro superiore e gonfiarsi. Vene. E’ incontenibile questa voglia di sfiorarlo, di sentirne il fremito, d’appallottolarlo in bocca, di passarci sotto, tremenda.
La voglia.
D’appoggiarti le dita sulle spalle, succhiarti le narici che respirano. Seguire, l’arco perfetto delle sopracciglia, le palpebre, che cedono.
Quel giorno, che tornerò, ti bacerò quanto mi piace la tua bocca.

Viaggiatori 3

Ecco il vuoto, mi si para innanzi, non lo so evitare. C'è roccia liscia e poco verde, manca la presa, precipiterò.
L'ansia
toglie la lucidità, in questi momenti servirebbe.
 
S'inerpica lo sconforto come uno stomaco in gola, su o giù di lì.
 
[Liane
cercai dove appendere figure plastiche,
tutta un'esistenza
di bambole e di alberi di Natale
accesi].
 
Inutilità di me.
 
Confusione
di gente di corsa sui treni in ritardo.
 
Rumore
di voce metallica, sopra un paio di coperte a terra.
 
Negli angoli
della mia esistenza c'è troppo spazio.
 
Cammino
senza guardare dove.
 
Al freddo
distesa.
 
Solitudine
fammi compagnia in questo strazio chiamato vita.
 
Non vedo nessuno,
nemmeno chi si sposta dall'odore di mani tremanti.
 
Attesa,
in uno spicchio di stazione quasi casa,
il posto
per morire in pace.
 
 
 
 
Stazione FS di Venezia Mestre, febbraio 2010, clochard, donna, età apparente: oltre 80 anni. Fra l'indifferenza di centinaia di persone. Io  osservo, sono parte dell'indifferenza. Posso darle 10 euro. Niente più che un gesto piccolo. Mi sento a disagio per l'elemosina e perché sono parte di una società che permette questo. Troppo abituata al dolore,  troppo concentrata sulla mia gioia, tempo mezz'ora e dimenticherò. Perdo il mio treno.
 

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