Scritto da © Anonimo - Gio, 18/03/2010 - 18:02
Eravamo sulla roccia a strapiombo, dove la costa è uno sperone del tutto simile ad un dito puntato nell’occhio verde del mare e le onde del med sembrano un continuo battito di ciglia che umidifica per liberarsi dal granello di calcare.
Fermi alla curva, proiettati sullo sbalzo che regge una terrazza naturale dall’incredibile sapore di pericolo, osservavamo a destra la baia a cui dava luogo lo stretto promontorio sul quale, chiusi l’uno all’altro, ci aprivamo al sordo rimbombo sotto i nostri piedi: sembrava provenire dal centro della terra ed amplificarsi in noi suoi timpani, ma era solo il mare.
Quaranta metri più in basso, il terrore svaniva in una morbida spiaggia bianca che pareva un sorriso di bimbo, e le ginestre, sulle pareti dell’imbuto, quella indomabile chiosa gialla che accompagna una chioma rada ma fluente di macchia mediterranea.
Poco prima, il vento della velocità, nella decappotabile nera, aveva scompigliato pensieri ed attese, come capita negli improvvisi rovesci della sorte, che portano dall’attimo della più ampia serenità al pozzo del tormento: quasi che le ostruzioni di colpo si frappongano con un rapido gesto intromesso.
Il gesto di Marta - la sua coagulante voglia ad andare, sempre andare, a qualsiasi costo andare - aveva chiuso in modo repentino la ferita di quella mattinata straripante sole e dolore: un mix ineffabile tra il martello del sorriso e l’incudine del “non c’è più spazio per te nella mia vita.” Frase fatta, frase banale; sorriso di circostanza, sorriso falso. Sofferenza vera. Non mi è mai stato possibile capire come si possa deviare da un percorso consolidato, forse abitudinario, ma stabile, in modo così repentino: una chicane dall’affetto all’indifferenza attraversata con lo slancio della più rapida volubilità mai vista.
Ma lei, lei, era così.
In quel modo aveva occupato le mie giornate, disteso la sua presenza voluttuaria nelle attese a grappolo, convertito qualsiasi ombra nel suo profilo, padroneggiato gli ambienti, le cose, le crepe, le piante rinsecchite sul terrazzo riportate a nuova vita, gli odori dei vestiti, gli asciugatoi sgualciti. Ogni oggetto che avevo trascurato aveva un nome che lei chiamava con confidenza, entrando ed uscendo dalle mie aperture come l’aria, come un profumo di prato selvatico in cui l’ortica s’accompagna alla viola ed il rovo alla mora; e mori i suoi capelli, odoravano d’acqua e rosa; more le sue ciglia e le pelurie libere da pettine che pettinavano le sue braccia ed il suo ventre. Un ventre piatto da quarantenne vigile alla vita e coinvolta in tutto a viverla.
Aveva quanto da sempre cercavo, ed il mio sempre è un sessantennio pieno e amaro.
Perderla così, mentre già costruivo un futuro dissimile dalle troppe cadute subite, era un precipitare la morte negli occhi della rinascita.
Pure, sentivo irreale essere giunti a questo salto.
La sentii avvicinarsi da dietro. Un passo leggero sul ghiaietto di fianco. Superarmi e frapporsi all’orizzonte in sfida al dirupo. Il profumo di acqua e di rosa inebriò le narici che si dilatarono come mani a raccoglierlo. Una subitanea vertigine mi prese come quando riappariva dalla doccia cantilenando. Provai un lancinante desiderio di stringerla a me e lasciai che le braccia lentamente salissero alle sue spalle: era vicina, dannatamente vicina.
Poi le stesi di colpo, ma non ricomparve l’orizzonte.
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