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Prosa e racconti

Il mio nemico

L’acqua del fiume scorreva lenta attorcigliandosi in pigri mulinelli, seduto sulla sponda, lo sguardo fisso al niente, attendevo un evento che desse senso alla vita sino allora vissuta. Solo lo sciabordio del fiume teneva desti i miei sensi. Non so quanto tempo ho trascorso così, sulla riva di quel fiume. I mulinelli inghiottivano i cadaveri dei miei anni ormai consunti ed erosi ma attendevo, sicuro che il nemico di lì a poco sarebbe passato. Lo vidi arrivare, finalmente, e lo seguii con lo sguardo: ero io. Soddisfatto lasciai la riva di quel fiume e me ne andai. Ora, seduto sulla sponda di un altro fiume attendo che passi il cadavere dell’ultimo nemico: il tempo.  Ma forse è già passato e non me ne sono accorto.

Amiche

A volte penso che sono pochi i momenti significativi che trascorri con le persone che ti stanno a cuore. Adesso è la fretta che padroneggia i nostri animi, ci sono da scegliere e da decidere tante cose. Ma basta una risata, una battuta, un sorriso che capita a volte; non occorre essere in capo al mondo, anzi. Nei luoghi comuni, nei posti vecchi della nostra infanzia, nei posti che sanno di ricordi e nostalgia. Non dimenticherò mai la giornata di ieri. E' stato bellissimo, grazie, grazie di cuore. E' nata in me la voglia di rivivere ancora, di ricominciare come prima. E si è evoluta in me la speranza di non perdervi, la certezza che il nostro legame è molto più che semplice amicizia.
Ce la farò. Ce la faremo. Insieme.
Vi voglio bene.

La vostra amica
GocciaDiMare

Al Sup. Marcos

Don Marcos: Io non so se non le sembrerà strano che le scriva, però risulta che mi duole un molare e secondo quanto sto leggendo, lei sta andando ora per queste terre che, finché non termineranno di venderle, continueranno ad essere di chi sono. Cioè quelle di chi l’hanno sempre vissuta e lavorata.
Allora ho pensato che, approfittando del fatto che mi duole il molare e che lei sta camminando sotto questi cieli, io potevo scriverle e salutarla e invitarla a scambiarsi una manata sulle spalle con me (a larga distanza, si capisce). Che ne dice?
Come? Che ha a che vedere il dolore al molare con una manata sulle spalle? Bene. Lei ha ragione, devo spiegarle allora la relazione, molto strana, che esiste fra il dolore al molare, il fatto che lei cammini per queste terre, la larga distanza e una ragazza.
No, non si sorprenda del fatto che ora sia apparsa pure una ragazza. Sempre ne appare una, lei lo sa Marcos.
Bene, risulta che, mentre io stavo passando per quella tappa difficile in cui uno scopre che non è più un bambino e neanche riesce ancora ad essere un uomo (quella tappa, lei lo sa Marcos, in cui le femmine si trasformano da moleste a interessanti e da lì quanti problemi), conobbi un vecchio che, senza che glielo chiedessi, decise che doveva darmi un consiglio sopra questi esseri incomprensibili però tanto amabili che erano, e sono, le donne. "Guarda ragazzo -mi disse- la vita di un uomo non è altro che la ricerca di una donna. Attento che dico una donna e non qualsiasi donna. E per una donna, ragazzo, mi sto riferendo a una come unica.

Chihuahua. Facebook Short Posts

Ezio: "Stringo i tempi". Passato remoto: "Siamo al golpe". Futuro anteriore: "Clima soffocante". Imperfetto: "E' un giullare". Di Pietro: "Io a quello lo faccio nero". Nota del Quirinale: "Abbassare i toni della polemica. Dialogare in un clima civile. Trovare valori condivisi".

La carne è debole. E il pesce non sta messo molto meglio.

 

Paolo di Tarso: "I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi". Ezio: "Tanto ti ci voleva a capirlo".

Una macchia bianca

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.
E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.

Con gesta delicate appende la camicia nell’armadio, in mezzo alle altre, quasi a volerla nascondere.  Raggiunge il bagno.  Una doccia le farà bene, la aiuterà a ripulire i suoi pensieri, lavando via tutta la confusione di questi giorni. Chiude gli occhi e si lascia scivolare addosso l’acqua quasi fredda. Meccanicamente si versa lo shampoo sul palmo della mano, inizia a frizionare leggermente la testa con la punta delle dita… le sue dita sulla schiena, quella pressione lieve eppure ferma, decisa. Il calore del suo tocco, delle sue labbra sulla pelle. Le mani sulle mani, il respiro nel respiro... Un brivido la percorre, spalanca le palpebre imperlate di gocce. Respira affannosamente, gli occhi fissi contro le piastrelle. Allunga la mano verso il sapone. E’ liscio e freddo, improvviso le arriva l’odore intenso della vaniglia. Metodicamente lo passa su ogni centimetro del suo corpo: i piedi, le gambe, il ventre… E poi le braccia, il seno. I capezzoli turgidi, la pelle tesa. Il suo corpo addosso, i desideri annullati nel suo profumo, nel suo odore. Le ombre lunghe della sera che invadono la stanza; e dietro le tende socchiuse tutto il resto del mondo…

L'uomo-stella

Pensiamo all'uomo di Vitruvio. E pensiamolo mortalmente crocifisso, inscritto in quel cerchio ed in quell'angusto quadrato, i simboli di cielo e terra, piegati a misura d'uomo.
Quanto dovrà stare scomodo quell'uomo cui grava sulla testa tutto il peso del lato del quadrato e che non può neanche rischiare di abbassare le braccia per evitare che il tetto del mondo crolli su di lui inesorabilmente. Sì, un po' come Atlante. E che dire di quell'ombelico (del mondo, come lo definirebbe qualcuno) che realmente si fa perno del cerchio, dell'orbita che gravita attorno alla sua figura?
No, non credo sia molto comodo trovarsi bloccati dentro una ruota, invenzione geniale, per carità, ma non per viverci dentro. [Poveri criceti, a cosa li condanniamo!]
Ecco, con questa breve visione d'insieme abbiamo dimostrato quanto la perfezione vitruviana, successivamente rinascimentale, abbia rovinosamente posto l'uomo al centro del mondo. Egli è creatura perfetta e proporzionata in tutte le sue parti, ma quale sovrumano peso deve sopportare questo uomo perfetto per potere confermare ad ogni passo la propria (indiscutibile...?) perfezione? Di quante responsabilità si sono fatte carico quelle spalle dai muscoli doloranti, tremanti, tese come corde di violino e quella testa orribilmente schiacchiata dall'onere della coscienza? L'uomo virtuviano non è contento e lo si vede dalla sua espressione accigliata, dalle sopracciglia aggrottate. No, direi che non lo è per niente. E lo credo bene.
Ma se pensassimo quell'uomo, quello stesso uomo, conservato dentro una stella... sì, una stella a cinque punte, quella che tutti i bambini non riescono mai a disegnare perfettamente, quella forma libera, composta da triangoli, figure perfette e stabili, saldamente poggiate a terra, ma con la punta che anela e tende all'infinito... e che potrebbe anche raggiungerlo! Cosa direbbe, allora, quell'uomo? La cui testa non deve più sopportare il peso di nulla, deve solo permettere alla sua essenza di elevarsi e le cui braccia e gambe possono anche rannicchiarsi formando una palla, una palla infuocata... un Sole?

Il Gazebo

S’accorse di aver cliccato inavvertitamente con il dito pollice, o forse con un’intenzione partita da un inconscio che non aveva fatto in tempo, o voluto, controllare, sul tastierino in basso a destra del Motorola stretto longitudinalmente tra le dita.
Aveva lasciato scorrere più volte la piccola camera, nelle prime ore del pomeriggio dopo avere mangiato un panino al bar-mensa dell’ospedale ed aver letto tre quotidiani, su giardini pieni zeppi di siepi e parcheggi ai lati, e mancanti di aiuole, per documentare, insieme allo squallore di una totale assenza di colori vivi naturali, la similitudine con lo stato d’animo che quel giorno, e in quell'ora, lo stava soffocando.
Attendeva di conoscere l'esito di un intervento operatorio che si andava prolungando oltre il previsto e, impaziente com'era, avrebbe desiderato quasi che la natura gli avesse voluto anticipare, con il suo rigoglio, un segno benevolo e comunque di speranza.
Arrivato all’altezza dell’unico gazebo del prato circondato da padiglioni di cemento vivo, era rimasto colpito dall’improvvisa macchia azzurra che gli aveva invaso l’obiettivo e l’occhio, quasi una fastidiosa puntura di un insetto che avesse voluto arrecargli un ulteriore danno.
Andrea abbassò il cellulare fino al petto, per rendersi conto se fosse la rifrazione o l’insetto veramente, e rimase a guardarli ad occhio nudo.
Era un’intera famiglia, una famiglia probabilmente nordafricana, o indiana.
Dalla ventina di metri da cui li stava osservando non avrebbe potuto dirlo con certezza., poi invece pensò, magari sono pakistani. La donna che aveva dato colore alla camera del cellulare difatti, vestiva una specie di sari e gli uomini seduti in circolo sulle panche, coi bambini e tre donne più anziane, vestivano vesti lunghe fino ai piedi di un bianco sporco e sulle labbra portavano mustacchi importanti.
Andrea pensò ancora, deve essere la figlia, perché nessuno dei due uomini aveva i mustacchi color bruno.
La donna in piedi stava distribuendo sul tavolo circolare, tirandoli fuori con cura da sacchetti di plastica ad uso alimentare marchiati coop, sacchetti di carta bianca grandi e piccoli, e due pile di piatti e bicchieri, di plastica lattea.

Pensiero musicale

Una vibrazione che sempre mi salva...
la mia musica che vibra e pizzica la pelle sollevandola con un brivido.E cosi vorrei innamorarmi...
Sarebbe come accogliere dentro di me qualcosa di nuovo.Una filo invisibile che prenda origine da lontano,oltre i miei spazi comuni,da località sconosciute e che riesca lostesso a raggiungermi.Lascerei che quella melodia lenta pizzichi le mie emozioni più nascoste e pian piano risolga fra le punte delle  mie labbra.Ne farei canzone,colonna sonora della vita di due anime destinate a sposarsi.Sarebbe come vivere  per la prima volta.Sarebbe come amare per la prima volta...
Sento già che una nota si perpetua nella mente,suona in me quasi familiare...come se qualcuno me l'avesse già cantata.Un angelo?Un salvatore?...
Questa nota che pian piano si fà sempre più chiara mi culla come quando ascolto la  musica più cara.E' un regalo che non è fatto di immagini,nè di carne,ma ha la forza di attraversare spazi e catapultarti dentro la tua emozione,in quel mondo fatto di solletico brividi palpiti...
Ti senti al sicuro,senti che nessuno può farti del male come se una calda coperta fosse sufficiente a difenderti dalle minacce di una realtà impastata di minacce e violenza.

Una storia d'altri tempi di cose andate e di cose venute...

 

La storia che voglio raccontarvi è una storia semplice. Un semplice altalenarsi di colori pastello tra il semilucido e l’opaco. Che tanto assomiglia all’alone della vecchiaia che avanza e costringe a volte a incollare e scollare ciò che v’è da scollare per rincollarlo. E questa vicenda vorrei proprio riportarla, come si faceva una volta, quando si raccontavano gli accaduti intorno ad un fuoco acceso, ed anche questa, iniziarla come si faceva allora… C’era una volta intorno all’inizio del secolo scorso, quando era più facile andare a piedi che trovare un passaggio da un carro trainato da buoi, un uomo lungo la strada.
Magro come un chiodo, con una giacca due misure più grandi e pantaloni di fustagno colore dei tronchi degli alberi che oltrepassava a due per volta ogni venti secondi. Percorreva un percorso di migliaia di volte percorso, su una strada da sempre uguale; identicamente uguale a quella stessa della sua infanzia. Se avevi la fortuna di poterlo osservare attentamente anche sotto la barba bianca, due rughe dalla metà del naso scendevano sino al mento come due parentesi intorno alla bocca; ma questo, in fondo in fondo, ha poca importanza. Torniamo invece al suo camminare. Quel percorso tante volte fatto, glielo leggevi nella noia che in fondo all'iride potevi intravvedere, così tanto per dire, anche in quell’unico pensiero che portava dentro al cuore, grande come tutta la sua vita. Poi, in men che non si dica, vi rintracciavi pure un acquerello appiccicato alla parete dei suoi ricordi: una donna lontana che difficilmente sarebbe tornata, con due bambini che la seguivano stuzzicandosi l’un l’altro. Ma lui sempre ci sperava e ci sorrideva. Capace come nessuno, di sorridere all’impossibile.
E mentre pensava alle speranze impossibili, camminava. Leggermente curvo con il passo cadenzato e lento, incurante del nulla che gli accadeva intorno e delle pochissime auto che passavano borbottando sul centro della strada alzando polvere e suonando sempre ed immancabilmente, quella trombetta tipo:“poti poti.” Camminava lento dicevamo, sul bordo della via, su terra di bosco che la strada a quel bosco aveva rubato, una striscia colore ocra che come un serpente terminava appena oltre il paese sovrastante.
Un fagotto appeso ai bastoni degli attrezzi da campagna tenuti insieme da due lacci, uno in basso ed uno in alto. Dai nodi ben stretti. Il tutto appoggiato sulla spalla ed all’avanbraccio a bilanciarne il peso. Un cappello a falda larga nero come il carbone con un nastro che pendeva da un lato come un vezzo. Un leggero vento gli faceva volare quel nastrino come una brandello di stendardo strappato in mille battaglie. Mentre intanto spazzava la polvere che le poche auto alzavano al passaggio. Lui ogni volta ne tossiva con noncuranza.
Il paese come ho già detto, era un poco più oltre. L’ultimo tratto sarebbe stato il più faticoso per un uomo della sua età. La sua casa era l’ultima alla fine delle case, oltre la piccola piazza del municipio. Si chiamava Anton quel paese. Ed anche Anton era ormai stanco di camminare. Si perché vi sembrerà incredibile ma ambedue avevano lo stesso nome. Sia la nostra comparsa che il paese avevano l’identico nome e quell’ultimo spesso si divertiva a creare confusione con l’interlocutore di turno sul fatto di chiamarsi Anton di Anton e davanti ad un buon bicchiere di vino, giù risate a morir dal ridere. 
Questa volta invece del vino, l'occasione di bere un sorso ad un filo d’acqua che scendeva da chissà dove cadendo lì sulla strada ed alla mattina mai avrebbe pensato di dedicarsi ad altri tipi di bevute, che bere vino era solo un momento della sera durante la cena e a volte a finir il bicchiere con un cucchiaio di zucchero ben girato toccandoci dentro l’avanzo del pane della cena.
Lui era nato in quel paese e la strada era la stessa di tutta la vita. E come ogni mattina si fermava al bar sulla strada. Una specie di emporio dove si poteva comprare quasi di tutto. In realtà era l'osteria del paese, ancor prima di arrivare al paese.
Spinse la porta in legno che lo separava dall’interno. E quando entrò sulla scena calò il sipario e piegata la schiena sugl’anni infranti, si sedette sulla solita sedia di tutte le mattine. Ma quella volta era chiaro già da come si era seduto, che non avrebbe partecipato in silenzio al silenzio di ogni mattina ma avrebbe parlato. Ed infatti fu così che da lì a poco, un decamerone di vita fu srotolato in pubblico, e lì si raccontò della sua storia accorsa al mese tredici del giorno seguente di quell’ultimo giorno sfuggito.
Il suo parlare era lento, quasi incerto, dietro alla barba del color di quel bianco del pane appena sfornato, ma il tono era austero, chiaro e deciso. Posso anche dire che quel giorno io c’ero, ed è per questo che ne parlo con tanta dimestichezza. Sarà stato quello stesso impossibile di colori e di vita vissuti o disertati, passati come è facile pensare come un volo d’appena sfiorato; ma egli lo tagliò come si taglia il pane sul tavolo della mensa la Domenica del dì di festa. Ed io lì ad ascoltare come si ascolta chi deve parlare. E con ossequio il silenzio gli lasci inondare.
Eppure intuivo le intensità sfuggite e le tendenze di livido da vecchi film. E bigio il cielo, del grigio pensiero sotto la pioggia che bagna l’asfalto che l’auto francese tritava lo stesso asfalto e i miei anni migliori… Ricordi? E ora mi si perdoni se mi incespico a parlar di me e di parlarne con voi che leggete... La ricordo perfettamente come se fosse adesso. Celeste opaca, sopra le pozze del bianco di neve e presagio di lacrime rosse al pensiero che andava. Verde fu invece l’ottavo giorno mai sorto al muschio del bosco. I funghi spuntati che lasciarono un leggero strato di umido odore vacuo di bosco, di castagno, di albero tosto e nervoso e al sole arancio della spiaggia della mia infanzia. Il blu fu all’ora venticinque, e il giallo di chi libero vive. Fu storia passata e poi lasciata lì come fango riseccatosi sul sentiero.
Ma torniamo alla nostra storia. Tutti conoscevano Anton. Aveva costruito una casa con le sue mani cinquant’anni prima quando ne aveva venti e si era sposato con una donna che dopo aver messo al mondo due figli, alla nascita del terzo morì di parto e anche il piccolo morì. Egli si trovò solo coi due marmocchi rimasti. Ma i guai non erano terminati anche i due bambini morirono, prima l’uno poi l’altro. La tubercolosi accompagnò il primo e l’altro finì sotto un carro mentre attraversava la strada. Erano anni brutti ma brutti veramente.
Dopo alcuni mesi dalla morte dell’ultimo figlio, Anton vendette metà della casa. La divise in maniera verticale dall’alto verso il basso e prese per se la parte verso il monte e mise in vendita la parte verso valle. Nonostante la rude scorza contadina che obbligava a non pensare troppo ed a non perder troppo tempo dietro gli orpelli della vita ed a pensar solo al lavoro, forse troppo solo si ritrovava alla sera e troppo solo era già al mattino, che quando aprendo la finestra della stanza non poteva non vedere la strada che sotto i due tornanti aveva portato via la vita di uno dei suoi due figli neppure il tempo di sentirsi esaurito che fece la scelta. Fu una scelta difficile. La notte ci pensava e al mattino non apriva la finestra perché sapeva che gli sarebbe venuto da piangere e non si poteva cominciare una giornata piangendo… diceva. Alla fine si convinse che sarebbe stato bene disfarsi di quel supplizio e fece l’affare con un villeggiante che vi andava solo d’estate per una ventina di giorni.
Conosci la strada per Santiago? Dimmi, conosci la strada per Santiago? Dimmi, la conosci o no? Dai, dimmi se la conosci? Mi chiese ripetutamente un giorno molti anni dopo, quando ormai pareva, agli occhi di tutti, quasi rimbambito e parlava ripetendo in continuazione le stesse domande. Risposi di si e che sapevo di quella strada e aggiunsi: “Marrone come la cartina tornasole e che una volta camminai col bastone al centro del cerchio. Camminai col bastone e la fiamma guizzava e brillava, e sfavillava e rosseggiava… balda e audace come in una poesia. Ma il tredicesimo mese il palco fu viola e tutti urlarono… e io pure… E fu così che tornai dal cammino di Santiago. Tornai e da lì ricominciai a pregare… e non solo Dio.”  A quella risposta rimase in silenzio attonito. Da quel momento, per anni e anni, se m’incontrava per strada e mi fermava per parlare del più o del meno, ma mai ritornò su quell’argomento.
Ricordo però che fui proprio io a nominargli di quell’autista che fuggì con mezzo e tutto e dell’accendino rosa che pendeva sotto l’armadio. Un’altra volta gli raccontai del bus che occhieggiò la biondina mezza svestita e alla luce verdognola quasi improvvisamente, scoppiava la penombra e il buco via via si fece sempre più grave e quasi s’ammalò. Gli raccontai anche del proletario che piegò il drappo strappato e che ebbi appena il tempo di vederlo garrire, un attimo soltanto, da un ultimo vento bizzoso e da una mano non incline al ripiego. Gli dissi pure che quella volta, sorrisi felice di averlo veduto ancora, anche se solo per quell’istante, da poterlo almeno raccontare… e la cosa più bella fu poterlo raccontare proprio a lui. Ricordo, mi annuiva e fu lì che capii che era l’unico che capisse quel che intendessi dire e quindi azzardai: “E dove tutto non abbia perso il senso” aggiunsi:  “Ancora mi siedo volentieri e guardo, laddove il bianco, sia di bianco vestito, e il nero sia nero, di nero pregato. Non rinnego il mio tratto, lo ammetto, ed al mio petto poso spesso ancora una mano e ascolto battervi dentro il cuore.”
A quest’ultima battuta lui fece l'atto di applaudire - e poi lo fece sul serio - ripetendo una specie di bravo bravo, che mi sembra ancora di rivederlo applaudire con gli occhi lucidi dalla commozione…
Poi nella sua vita si sposò ancora una volta ed ebbe un figlio che chiamò come io mi faccio chiamare ed ebbi anche la fortuna di diventargli amico e fu proprio egli che mi parlò di lui.
Ma questa è un'altra inimmaginabile pagina per un altra sera intorno al fuoco di questo camino che è il nostro scrivere e il nostro leggere quaggiù tra noi...

La parola di cinque lettere

La parola che ha detto continua a risuonarle nella mente, come quel cortese imbarazzo che l’ha accolta. Lei non sa come le sia venuto in mente, di dirla. Le è proprio sfuggita. L’ha pronunciata a capo chino, a voce bassa. Eppure è bastata a spegnere la conversazione nel solito gruppo di amici, riunito per una cena ed una piacevole chiacchierata. Per fortuna era abbastanza tardi per congedarsi, andare ognuno a casa sua. Già se li immagina, col loro sorriso ironico. «Ma proprio lei, ma ci pensi?».
 
O magari no, non avranno detto niente, si saranno limitati a scrollare le spalle.
 
No, proprio non lo sa cosa le sia venuto in mente. Eppure in queste occasioni è sempre controllata, ironica, dispensa argute osservazioni e citazioni colte senza mai risultare supponente, insomma, la conversatrice perfetta. E adesso, fare una figura del genere...
 
Eppure si stava parlando delle solite cose. La politica - ma solo per fare qualche battuta ironica sull'Italia che non cambia mai - l'ultimo libro di tizio, l'ultimo film di caio, la tal mostra, il tal concerto. Poi uno ha detto: ah, per me il cinema è veramente importante. E così si è passati a parlare di quali siano le cose «veramente importanti». E chi citava la lettura, chi l'ascoltare musica, chi il viaggiare...
 
Lei, contrariamente al solito, stava zitta. Li ascoltava come se fosse immensamente lontana, non nella stessa confortevole stanza con loro, seduta sul confortevole divano di quella confortevole stanza. Li ascoltava e pensava: «no, no, non è così, c'è qualcosa di più importante». Ma era come se questo qualcosa le sfuggisse.
 
Ma  lo sapeva, lo sapeva che c'era qualcosa di più importante. La sua mente analitica continuava a cercare, cercare. E poi all’improvviso l'aveva trovato, quel qualcosa, ed era rimasta stupefatta dalla semplicità della risposta. E proprio in quel momento, incuriositi dal suo silenzio, le avevano chiesto: «E per te, qual è la cosa veramente importante?» e lei non aveva potuto farne a meno di dirlo anche a loro, come se fosse la soluzione di un indovinello che era riuscita a decifrare. E l'aveva pronunciata, quella stupida parola di cinque lettere. Aveva detto:
 
«Amare».
 

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