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Prosa e racconti

Cronaca di un sogno annunciato.

Stavo camminando per un rettifilo affollato, come può essere la strada principale di una grande città, con le mani nelle tasche dei jeans e completamente all'oscuro di dove stessi andando. Dopo un diverticolo mi ritrovo in una stradina laterale stretta e buia. Cammino spedito. La strada stringe e diventa un vicolo in leggera salita. Le luci più prossime sono lontane. La salita si fa più salita. E quindi in cima, mi si presenta immenso un mare stranamente insolito appoggiato su una spiaggia lunga e deserta. Il buio diventa sempre più buio. Più di una lavagna. Più buio della paura che ormai prende il sopravvento e in evidente disagio mi giro d’istinto per tornare indietro. Ma il vicolo dal quale sono arrivato non c’è  più. Al suo posto c'è un sentiero parallelo alla spiaggia, che più avanti sale sopra ad un monte in cima al quale, c'è una vecchia ferrovia in disuso e delle casematte da contraerea. La spiaggia invece prosegue a perdita d’occhio. Laggiù, dove vedo e non vedo, laggiù in fondo, c’è un bambino che gira in moto sulla sabbia. Mi sembra di conoscerlo anche se lontano. Si, è un compagno di scuola delle elementari e sembra che il tempo per lui non sia passato.
Gli lancio un urlo per chiedergli un passaggio e lo vedo prontamente farmi un cenno d'assenso. Quasi sorride. Gli occhi sono appena socchiusi però non si ferma, anzi accelera. Io resto come un ebete a guardarlo mentre si getta nelle onde.

Al Gius

Al Gius non piaceva molto allontanarsi dal bosco, dove i militari raramente entravano, vuoi per una sorta di scarsa dimestichezza, vuoi per il timore degli agguati. Aveva smesso pure di segnare i giorni trascorsi lì, sulla corteccia bianca di una betulla e ora le incisioni si erano orlate, logorandosi in una riga scura, che segnava il tronco come sangue d’albero rappreso. Anche il ferro del fucile gli sembrava consunto e ne osservava gli strani puntini incassati, sparsi qua e là, come se il metallo fosse gravato dalla sua stessa spossatezza. Non sapeva nemmeno da quanto fossero lì, né quando avessero iniziato a farsi, se uno per volta o tutto insieme, nel cedimento del ferro. Una sorta di riluttanza lo pervase, e abbandonò l’arma appoggiandola all’albero più vicino. Da giorni non sentiva più fame né sonno, soltanto una specie di sete infeconda che gli rendeva la bocca impastata, e provava la sensazione che si fosse riempita di sabbia.
Gli altri partigiani erano a caccia, per aver un po’ di carne da abbrustolire sul fuoco, ma il vino era finito.
Il Gius si avviò lentamente verso la sorgente del Rì per prender dell’acqua fresca. Gli avevano lasciato quell’incombenza che almeno... si muovesse... qualche passo... la fonte non era lontana. Sapevano quanto gli piacesse starsene lì, abbarbicato sull’orlo del Rì, a guardare l’acqua che inevitabilmente scorreva giù fino a valle, raggiungeva la Piana, s’infilava tra le case del paese, ammorbidiva l’aria, richiamava l’allegria dei bambini che nonostante la guerra gorgheggiavano ancora e spandeva all’intorno quella gioia attutita, dalle sponde del torrente fin dentro le case, quelle ancora abitate.

il senso scarlatto del potere

aveva l'odore della carne e dell'aurora. se le due cose si fossero potute sentire vicine, sullo stesso piano, si sarebbero confuse inalando lo stesso senso roseo e sensuale. si muoveva ondeggiando e stemperandosi nelle lenzuola come fanno le bianche nuvole di marzo quando girano  sopra la testa sfilacciando il cielo blu. sulle labbra era apparso un movimento appena percettibile di vittoria, sì, il colore rosso  ne aveva proprio la forma. La forma del potere. una linea appena allungata divideva la bocca e si rialzava agli angoli creando due minuscoli punti ombrosi. piccoli, ma unici, nel resto del rosa. due piccoli punti potevano spiegare, contenere, realizzare...  tanto senso scarlatto  di potere?
ma poi, se si seguiva il suo sguardo, indugiando lentamente... lentamente.... lentamente...e si raggiungeva l'altra sponda del giorno, dove i raggi aranciati zigzagavano sulla schiena inerte, dove il respiro raccontava ancora di guerra, dove il calore si confondeva con la  resa.....beh, proprio lì stava   il suo sigillo. il suo regno. allora si, che si riusciva a  capire quell’insostenibile, rosso, turgido,  sorriso di conquista.

Assenza di felicità

Non ti abbattere, se c'è qualcosa che ho capito in questi anni di assenza, è proprio questa. Mai abbattersi, mai mollare la presa. Ti conosco da pochissimo tempo, saranno circa cinque mesi, e già ti voglio bene come se ti conoscessi da sempre.
Occhi fragili, situazioni non facili da affrontare, paura, timore, rabbia, incertezza.
Un passato difficile dove spesso la sofferenza ha assorbito anche quel poco di felicità che la vita ti aveva donato gratuitamente. 
Gli amici, una delle poche cose certe della vita. Il divertimento, i sabati sera agognati per distogliere il pensiero e il cuore dalle circostanze che ti facevano soffrire così tanto. Ogni volta che incontro i tuoi occhi mi sento affogare dentro, vedo quell'assenza insaziante di felicità , di tranquillità di un giorno, almeno uno, in cui tu non debba avere un minimo pensiero per la testa.
Ora che la vita ti mette ancora davanti ad un bivio, tu non puoi cedere, non puoi lasciare giocare la partita della tua vita agli altri. Non ne vale la pena.
Stai camminando su un filo , fragile sottile quasi come se fosse fatto di cotone. Mantieni l'equilibrio sempre. Provaci almeno. Al massimo quando cadi e ti rialzi avrai mille lividi sulla tua pelle. Quei lividi sono il segno che ci hai provato. Non c'era un materasso sotto di te ma prima o poi qualcuno te lo porterà e quel giorno te lo ricorderai per sempre. Nella vita tutti facciamo degli errori ma chi ne fa' tanti è un saggio. Dagli errori si impara e più errori si fanno più si prende il g(i)usto della vita. Bisogna lottare sempre. Lo si deve fare per se stessi.
Coraggio, prendi in mano la tua vita, vivitela in tutto e per tutto, giocatela come una partita a poker, rischia,sii presente sino in fondo. Anche se vedi buio.
Ma stai attenta, magari dietro quel velo nero c'è la tua felicità. 
Se rompi quel velo, troverai il paradiso. Quello tuo. Quello che ti sei guadagnata perché hai capito che qui sotto nessuno ti regala niente e che ti devi fare del male per stare bene.
 

El Gardelin

Era buio pesto quella sera e Gigi fumava la sua ennesima sigaretta appoggiato al tronco di un grosso albero ai margini del bosco, perso nei suoi cupi pensieri da non accorgersi che la Pina si stringeva con trasporto alle sue spalle sussurrandogli paroline dolci.
<< Gigi…è tardi, andiamo a dormire dai.>>
<< Gardelin?...>> <<Mmmmm…>> << Vieni dai e non farti cruccio, vedrai che domani andrà tutto bene…Gardelin?...Ma cos’hai, cosa sono tutti sti pensieri. Andiamo!>>
<< No, stasera no Pina. >> << Ma perché? >>
<< Perché non mi va, non ho voglia…>>
<< Uffa, quanto sei noioso, e allora resta lì a prenderti l’umidità in testa! >>
Brontolò la Pina e poi mettendo il muso se la filò, quella sera non era aria, meglio sparire, peggio per lui.
Gigi rimase lì, gli occhi fissi giù nella valle, sul suo paese. Riusciva a vedere solo qualche sparuta lucetta di tanto in tanto.
Quanto tempo era che non scendeva a valle? Mesi, no anni. Erano anni che si nascondeva nei boschi con i partigiani, accampato alla benemeglio sotto una misera tenda o in qualche grotta con la costante paura d’essere scovato. Aveva preso quella decisione dopo che aveva visto cosa era capace di fare il regime e dopo che i fascisti si portarono via suo zio, accusato non si era mai capito bene di quale atroce reato, lasciandolo poi morire di stenti in carcere e lui aveva promesso di vendicarlo. Così si era unito ai partigiani che adesso lo chiamavano “el Gardelin”  in onore della sua straordinaria capacità di imitare il verso degli uccelli in special modo quello del cardellino, richiamo che usava per avvisare i compagni in vista di pericoli imminenti.
Maledetto regine, non era più vita quella, maledetta guerra, quanto l’odiava e odiava anche quello che era costretto a fare, quella sera sentiva tutto il peso gravargli sulle spalle.
Intanto il pensiero correva giù per gli irti sentieri di montagna fino a quella casetta bianca dove abitava il suo amore, la sua adorata Tina. Appena poteva le scriveva sempre e le lettere gliele mandava tramite la Pina, la loro postina e messaggera, non aveva mai ricevuto nessuna risposta, perché?
Quello che lo teneva ancora in vita era il ricordo della loro ultima sera insieme, la più bella di tutta la sua misera esistenza.

La potenza di un sorriso

Le sue mani giacevano come morte sulle cosce scarne. I palmi si aprivano debolmente in una conca le cui dita formavano una foresta di rovi aguzzi. La pelle aveva ormai perso il suo roseo colorito e pareva un velo di seta poggiato su candide ossa sulle quali s'intrecciavano strade di vene e tendini.
Il volto mirava un punto che non guardava più da tempo. L'espressione attonita, malinconica, quasi assente, solcava le pieghe di quel fragile viso di ventenne che sembrava ormai appartenere ad un essere prossimo al passo estremo.
Negli occhi vi era il vuoto di un'esistenza mai compresa fondo, mai vissuta nelle sue trame più giocose e fertili, ma sempre osservata attraverso il filtro di uno spesso vetro isolante, insonorizzato. A soli ventanni, ella aveva già perso il gusto di una sonante risata.
Ma un giorno un raggio di sole colpì ostinatamente il suo volto.
Gli occhi, infastiditi ed irritati da quella penetrante insolenza, si socchiusero appena, corrugando le sopracciglia. Finalmente il grigiore di quel viso si vestì di colore, il colore di quegli occhi che sfavillavano dalle feritoie delle palpebre.
Il calore di quel raggio le pervase il viso e poi tutto il suo essere, sentì forte l'esigenza di muovere quelle dita intorpidite, di cui quasi non percepiva più la presenza. Il sangue cominciò a rifluire entro i canali inariditi del suo corpo, infondendole una nuova energia.
Prontamente si alzò e si recò alla finestra, i passi malfermi la condussero verso quel vetro che fu la sua prigione e, per la prima volta, sentì il desiderio di abbattere quell'ostacolo che l'aveva divisa dal mondo.
Con uno scatto ne aprì le ante ed una dolce brezza primaverile le accarezzò le gote. Adesso poteva sentire.
Sentiva il canto degli uccelli, le voci dei bambini, il soffio del vento tra le fronde degli alberi, sentiva il calore del sole ed i profumi del mondo.
Finalmente, a ventanni, ella scopriva la vita.
Adesso lei è nonna, le sue gote sono del colore delle pesche e la pelle è fresca d'estate, i suoi occhi, azzurri come il cielo, splendono sempre per i suoi piccoli gioielli, i suoi numerosi nipoti che le colmano il cuore e l'anima d'inifnito amore. Mai alcun pianto deturpò più il suo viso da quel fatidico giorno, poiché ella visse soltanto della potenza di un sorriso.
 
Alexis
12.04.2010

Io c'ero

Sai chi c’era quel giorno? Ebbene, te lo voglio proprio dire. C’ero io. Si, proprio io, quel giorno che il sole picchiava duro e il vento... benedetto signore, che vento quel giorno! Sensazioni di giorni che faranno epoca… Il vento di Genova poi... è un vento che noi conosciamo, eppure ci prende ogni giorno alla sprovvista. Che piova o non piova, da sempre noi, siamo abituati a quel vento. E ogni giorno dal vento ci lasciamo sorprendere... noi genovesi. Ah, e quel giorno eravamo molti e non soltanto genovesi, anzi viene da dire: tanti... troppi. Il corteo si staccava per chilometri e chilometri. Pensa, si parla di qualcosa di chilometri e chilometri. Ottocentomila persone ammucchiate a camminare. Ottocentomila facce sudate. C’era aria di festa lì in mezzo ai nostri passi. Trovavamo che fosse un modo di rispondere. E dunque si rispondeva e si urlava in tutte le lingue, urlavamo per le cose essenziali, vitali per il mondo (e non dimenticarti mai amico mio, che il mondo siamo noi), ed infatti eravamo noi e io c’ero caro amico mio. Peccato che non c’eri anche tu. Saremmo stati insieme senza saperlo e adesso lo saremmo sapendolo.
Il corteo si muoveva lento e molto spesso non si muoveva neanche. I bambini sulle spalle dei papà, le mamme attente a cosa pioveva dal cielo. Da tutta Europa e dal mondo (ma ti rendi conto?) un appuntamento naturale, come innaturale invece sarebbe stato l’andamento delle cose. E adesso che ci penso, forse quel vento eravamo proprio noi sotto quel sole che ci teneva caldo. E sotto quel sole ci sentivamo al sicuro.
Ricordo la città. Era divisa in tre. Da Levante si poteva arrivare, ma non da Ponente, (per via dell’aeroporto e da Bolzaneto per via della caserma della polizia), ma come un muro, si poteva scavalcare dai monti.
Tu non conosci Genova, avremmo scavalcato insieme se ci fossimo conosciuti allora, ed il corteo era una grande festa di bandiere colorate. Eravamo convinti che non sarebbe successo nulla (e si sappia che l’ala dura è sempre stata lontana dal cuore di quel corteo).
Bene amico mio, al pomeriggio del giorno prima c’erano già stati i primi scontri, gestibili se vogliamo. Ma il sentore c’era. Si sapeva già come si muovevano, già si sapeva come si sarebbero mossi, ma forse qualcuno doveva, o forse qualcuno voleva, che le cose avessero un diverso andamento.

Erano, questi, i miei giorni d'Africa

Erano, questi, i miei giorni d’Africa, la mia consolazione.
Con la vista andavo ai fiocchi di cotone in divenire nel turchese, sballottolati da un vento alto che non scendeva a terra se non per propagare fuochi enormi.
Sognavo poi le teste rasate dei miei fratelli di sangue riusciti a scampare, coloro che l’iniziazione aveva giunto in un vincolo più stretto ancora del parentale.
Ed infine vedevo la mia donna, raddrizzare il viso dall’orcio di creta dove continuava a sobbollire e raggrumare la manioca  come se le onde di quell’aria calda ascensionale fossero diventate insopportabili per lei e le impedissero di stare ancora ferma, lì in ginocchio.
I suoi occhi simili alla brace che covava nera e rossa tra i due sassi che la tenevano al riparo dal sollevarsi della sabbia in agguato pungevano la macchia gialla indicante, nel verde scuro delle foglie intoccate, il varco preferito dai cacciatori.
Dei miei figli, uno correva in tondo con altri tre, del più piccolo potevo a tratti vedere soltanto la curva del braccio, sorreggersi alla spalla e al collo della madre.
Ero stato sorpreso nel sonno, picchiato e incatenati a sangue i piedi sullo stesso giaciglio in cui dormivo accanto a loro, costretto, dopo la razzia, una volta legato con catene più lunghe ai polsi e alle caviglie dei miei compagni, a camminare giorni e notti attraverso la foresta, sui greti insidiosi, di fiumi che avrebbero potuto donarci una morte subitanea.
L’inizio di un lungo cammino senza difesa alcuna che ci avrebbe portati a vedere per la prima volta l’oceano, e la grande casa di legno che si muoveva..
A segnare il passo della lunga fila i cacciatori più potenti ed agili, a chiuderlo le vergini bambine.
I nostri carcerieri, più piccoli e sottili, con la pelle meno scura della nostra………….  

Scherzo (a Paperino) Part two, sputato, alla londinese

Ecco, se ne è andato. Ha pianto pure, poverino. Si vede, che mi voleva bene.

Dov'ero rimasta? Ah si, alle doglianze: punto 4.

Dicevo, non c'è pericolo che ci capiscano; appieno intendo.

Per loro è tutto semplice, tutto lineare.

Se gli affari gli van bene, sono disposti a spendere follie, se gli van male o stanno lì lì, sull'orlo, nemmeno s'accorgono che ci sei. E non provateci a chieder loro qualcosa, ad esempio uno shampoo, che so una museruola nuova.

Li vedi ramazzare con gli occhi, infilarsi in casa ed iniziare a strapazzare il telecomando come fosse un'altra cosa.

Poi ci sono i momenti dei dubbi esistenziali, quelli in cui ti fissano ma non ti vedono, quelli in cui hai voglia a scodinzolare. Quando si chiedono:- ma io, chi sono?

Accade, più spesso, con i padroncini giovani, ma anche la mia specie non scherza, su sto punto.

Io ad esempio, mi ricordo di Toby. Sempre in depressione, quel cocker. Bellino da matti eh, ma era appena uscito dall'adolescenza.

Gli facevo un filo! Insomma, capitemi, mi guardavo intorno: quell'estate sarebbe stata la mia prima volta.

Era più basso di me il biondino, ma di un vispo che pareva dovesse partire per le olimpiadi da un istante all'altro.

Salto con l'asta!

Insomma, tanto gli son stata dietro, tanto ho fatto, tanto gli ho tolto ( tolto? Frantumate) le incertezze da intorno le zampe che alla fine...

Lo so, lo so che voi femmine non ve lo chiedete, ma i maschi, lo sanno i maschi quanto acume, quanta intelligenza e quanta sopportazione è necessaria, e soprattutto quanta determinazione, per farsi, (uhm) fare, da un tipo come quello?

Basta là.

Un giorno, era appena accaduto, tutti i giorni sgattaiolavo fuori da un buco che Paperino aveva lasciato nella recinzione per incontrarmi col mio ganzo, con quella canicola per pareva bucasse l'asfalto, non te lo scorgo dietro un angolo, indovinate a che fare?

A farmi le corna.

Lo dico piano, con gli zamponi ai lati della bocca, tanta è la vergogna ancora.

Con Bob, il cane lupo dei signori Blackpotter e, Toby, era quello davanti.

Beh, io ho continuato, gli sono passata davanti, e non li ho nemmmeno guardati tanto era il mio disprezzo.

Figlio d'un cane!

Ma guarda tu se dovevo perdere il mio tempo con uno che neanche lo sapeva chi era.

Continua

Prima Vera

Sento la Prima Vera stagione, che s'affianca alle nevi d'Inverno, che smuove dentro un'idea dirompente, che graffia come sul greto il ruscello di monte e rumoreggia in un andare d'acque nuove, rivolte al ghiacciaio. Chiara d'ambra la pelle si muove e il sangue  straripa, caldo e sensibile. E' neve di nuovo, nel biancore fiorito dei ciliegi selvatici che occhieggiano sopra il fusto alto, avvolto di edere verdi e ancora vermiglie nei primi raggi di sole, colto. Poi quel cedere all'aria, mentre stacca i petali bianchi, che fuggitivi vibrano e si disperdono. Non c'è frutto che possa compensare questo pianto, che in silenzio s'avvera.

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