Scritto da © Manuela Verbasi - Lun, 26/09/2011 - 20:38
di Francesco Anelli
Il sole di questo giorno ha portato linfa vitale sugli orizzonti poetici del nostro vivere…Ero studentello ancora implume, pieno di desiderio non trattenuto, ma propenso di accogliere ogni grammo di sapere che mi fosse stato proposto bellamente e senza censura…E…proprio un giorno che mi trovavo nella biblioteca di facoltà ci fu l’illuminazione per la poesia maledetta. Fuori diluviava. Quella mattina il mio animo fagocitante si sfogliava tra i libri della sezione dedicata alla letteratura francese e con l’occhio ceruleo scorrevo Flaubert, Balzac, Hugo, Voltaire, Apollinaire, Céline, Prévert, Camus, Dumas, Proust, Zola…etc. etc….quando una parola mi catalizzò l’attenzione. “Maledetta”. Aggettivo significante, pieno di retro-gusto misterioso, che si accostava come un guanto signorile ad una mano di nobil donna… e il mio animo ribelle di quel periodo fu immediatamente catturato.. Mi fermai e concentrai il mio desiderio di conoscenza su quelle pagine così intrise di novità…
Fu amore non appena presi il libro delle poesie di Arthur Rimbaud. Scorrendo la sua biografia compresi subito che si trattava di un artista poliedrico. Un poeta che soffriva d’inquietudine del vivere e che le sue vicende personali avrebbero influenzato il verso poetico…E di lui mi colpirono queste parole:”Voglio essere poeta, e io lavoro per rendermi veggente: voi non potreste capirci abbastanza, e io non saprei come spiegarvi. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante una sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nato poeta, e io mi sono riconosciuto poeta…”. Parole queste che scuotono l’animo di chiunque, segni di una verve artistica disseminata da dolori, sofferenze, veggenze futuristiche… Una poesia che è all’apparenza incomprensibile se non ti avvicini con predisposizione adeguata…Devi in un certo qual senso metterti comodo e aprire tutti i sensi…Con la poesia maledetta devi sederti su una poltrona, sorseggiare un bicchiere di buon vino e lasciare che le parole facciano il loro percorso penetrandoti fino negli interstizi più reconditi…E tu mio caro buon taglio hai dato il via a questo percorso naturale…e, seppur hai sfoderato un avvio originale citando uno studio antropologico scientifico, desidererei riportare il filo del discorso su ambiti più letterari, non che la tua spinta sia priva di succo, anzi…la trovo spiccata e interessante, ma purtroppo il mio slancio introspettivo e analitico mi porta, per competenze e pulsioni, in ambito più letterario filologico…La poesia maledetta si stempera in un’epoca fatta di parole cerimoniose, di lemmi radicati in un gessato di classico perbenismo, ove lo slancio poetico si trasformava in regole e dettami fissati dalla tradizione e dove l’iter narrativo si palesava attraverso il verso serio e per bene della poesia tradizionale…Ebbene, in questo palcoscenico così palesemente deciso, personaggi del calibro di Arthur Rimbaud, Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé e Charles Baudelaire non poterono che riscuotere sorprese e clamori. Lo stereotipo dell’artista dannato si delinea assumendo una dimensione mitica. Con l’aggettivo “maudit” si tratteggia la tendenza di molti intellettuali a scardinare, profanare tutti i valori e convenzioni della società borghese e a scegliere deliberatamente, come fosse gesto naturale, il male e l’abiezione. Il poeta diventa l’attore che sceglie consapevolmente la via dell’auto-annientamento. Il vizio, le sregolatezze, l’alcol e l’abuso di droghe diventeranno il credo di questi artisti. Impulsi distruttivi, attrazione per la morte e rifiuto per la società borghese saranno elementi accomunanti per questa corrente letteraria. Queste regole così fuori dalle regole, in realtà poi, portarono all’equiparazione del concetto in quanto tale. Mi spiego meglio. E’ logico asserire che questa pulsione artistica portò inevitabilmente novità ed ebbe un impatto devastante sulla tradizione poetica classica, ma è altrettanto vero che, una volta esaurita la forza iniziale, gli epigoni che seguirono le tracce non ebbero certo la forza e la grandezza degli iniziatori. Molti lo fecero per moda. La grandezza di questo filone letterario si può individuare nella crudezza naturale dei reali “maudits”, cioè quegli artisti che sentirono addosso il malvivere…E la figura che meglio racchiude ciò è proprio Arthur Rimbaud e il buon taglio lo ha colto esponendo il suo percorso…A questo punto, riprendendo il canovaccio proposto da taglio, desidero riproporvi le sensazioni che ho provato quando ho letto questo artista. E inizio con le parole di Michael Riffaterre:”Il problema non è mai risolto; il mistero non è mai chiarito. Nella forma, ciò ha come conseguenza il fatto che il poema non può mai essere limitato ad un'interpretazione unica e che esso conserva indefinitamente il suo potere efficace di catalizzatore dell'immaginazione, il prestigio dell'occulto”. Parole queste danno la dimensione entro cui si deve riportare l’opera sfaccettata di Rimbaud. E seguendo sempre la scia imposta da taglio, per capire esattamente le tematiche rimbaudiane, è necessario focalizzare la nostra attenzione su le “lettere del Veggente”, poiché lo stesso termine ‘veggente’ raccoglie appieno il significato dell’intera opera dell’artista…Sembrerebbe scontato, ma non tutti sanno che due giorni dopo l’autore, scrivendo a P. Demeney, asseriva con sagacia introspettiva ribadendo nuovamente il filo conduttore del suo animo artistico: ”:Adesso, mi intestardisco il più possibile. Perché? Voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: voi non ci capireste niente, ed io non saprei come spiegarvi. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire mi si pensa. - Perdonate il gioco di parole…”. A questo punto, per aiutare il nostro lettore e per fare un passo ulteriore in avanti, si può affermare con una certa sicurezza che in queste parole si ritrova sviscerata l’essenza della poetica del francese. Egli porta una cruda, lucida e spesso denigrante critica nei confronti della letteratura del passato, nonché per quella del suo tempo. E’ proprio da qui…da questo assunto così esplicito che bisogna approfondire la tematica…Non preoccupatevi è lo stesso Rimbaud che ci viene in soccorso e infatti nella poesia “Ce qu'on dit au Poète à propòs de Fleurs”, inclusa nella lettera spedita a Théodore de Banville il 15 agosto del 1871, Rimbaud non fa che ribadire, esplicitamente, la rottura con tutta la tradizione letteraria di allora, e con i Parnassiani in particolare. Con molta attenzione, riporterò in questo consesso la traduzione che feci a suo tempo, non tralasciando anche le mie impressioni…Ovviamente, esporrò solo i passaggi più significativi, cioè quei versi che meglio rappresentano il sentire del poeta. E, fin d’ora, mi scuso con tutti voi per l’esegesi semplice…
Ainsi, toujours, vers l'azur noir
( Cosi , sempre verso l’azzurro nero )
[ Il verso d’esordio è una chicca suggestiva, oltre a rivelarci su che piano il poeta rivolgerà il suo occhio interiore, ci avverte subito che le immagini non saranno certo tradizionali…L’azzurro non può essere nero…Sconvolge il canone ]
Où tremble la mer des topazes,
Fonctionneront dans ton soir
Les Lys, ces clystères d'extases !
( Dove trema il mare dei topazi
Funzioneranno nella tua sera
I gigli, questi clisteri d’estasi )
À notre époque de sagous,
Quand les Plantes sont travailleuses,
Le Lys boira les bleus dégoûts
Dans tes Proses religieuses !
( alla nostra prosa di saggi
in cui o le piante sono lavoratrici
il giglio berrà i disgusti blu
nelle tue prose religiose )
- Le lys de monsieur de Kerdrel,
Le Sonnet de mil huit cent trente,
Le Lys qu'on donne au Ménestrel
Avec l'oeillet et l'amarante !
( I giglio del signore di Kerdrel
il sonetto di mille otto cento trenta
il giglio donato al Menestrello
con il garofano e l’amaranto )
[ Questi versi sono una stilettata alla poesia della tradizione. Ciò che sorprende sono le parole ricercate, un uso tracimante, dove l’aggettivazione ci forza il pensiero conducendoci sulla sofferenza e il dolore…Indicativo è il sostantivo clistere posto in contrasto con i gigli..Be’…stupefacente…Una forza d’impatto che vuole colpire i saggi dell’epoca…]
E continua nel secondo passaggio:
II
O Poètes, quand vous auriez
Les Roses, les Roses soufflées,
Rouges sur tiges de lauriers,
Et de mille octaves enflées ! (…)
( Oh poeti quando avrete voi
rose, rose soffiate
rosse sui rami d’alloro )
(…)
Toujours les végétaux Français,
Hargneux, phtisiques, ridicules,
Où le ventre des chiens bassets
Navigue en paix, aux crépuscules ;
( sempre francesi vegetali
bigotti, tisici ridicoli
dove il ventre dei bassotti
naviga in pace ,ai crepuscoli )
Toujours, après d'affreux dessins
De Lotos bleus ou d'Hélianthes,
Estampes roses, sujets saints
Pour de jeunes communiantes !
( sempre dopo orrendi disegni
di loti azzurri o d’elianti
stampe rosa, soggetti santi
per giovinette da prima comunione ) (…)
[ Questi versi possiedono una forza evocativa sorprendente, ove le parole sono accette che cadono con forza distruttiva sulla tradizione e su i poeti melliflui di quel tempo. Il poeta sceglie parole forti per portare il lettore ad un’estasi di pensiero, in qualche modo desidera dare a chi legge una scudisciata meditativa…Bello….]
[ Rimando all’intera composizione per apprezzare l’originalità ]
Il registro narrativo del componimento è tutto così. L’artisticità di Rimbaud verte proprio su questa novità sorprendente, riesce attraverso le parole a darci emozioni filtrate dal suo sentire, un sentire originale. Ricordo che, da studente, queste pagine risultarono fantastiche per la loro forza e per la rottura con la tradizione…Solo ora, a distanza di qualche lustro, riesco a cogliere tutta la bellezza concettuale celata dietro questi versi del francese. Nella sua poesia di rottura c’è un aspetto davvero interessante, troppo spesso tralasciato, ma di cui bisognerebbe parlare e porre per un momento l’attenzione. Il tema del viaggio. Tale tema è un topos letterario. Per quell’epoca Rimbaud risultò essere un viaggiatore che percorse tragitti estremamente emozionali. Egli inizierà un periplo interiore per dare risposte ai misteri del mondo. E per averne conferma basta commentare una delle sue liriche più famose: “Le bateau Ivre” scritta nel 1871, poco prima d’essere invitato da Verlaine a Parigi. In questo componimento il poeta immagina l’incredibile viaggio di un battello che, perdendosi tra le acque impazzite dell’oceano, solca l’animo umano tratteggiando paesaggi incredibili trascendenti ogni nozione di tempo e spazio. Risulta subito evidente che è un percorso metaforico, un’evasione dal proprio io per ricercare la parte più oscura e profonda di sé. Si delinea, quasi per istinto, un forte impulso, che poi si ritroverà esteso nella “Lettre du Voyant” di cambiamento di vita attraverso una ricerca interiore. Ma dove si evidenza il genio di questo viaggio? Rimbaud riesce a condurre sì un percorso interiore ma conduce al contempo una visione inesorabilmente fuori di sé, cioè nella realtà universale. Il gesto, o meglio, la pulsione poetica non è più intesa solo come afflato evocativo scaturito dai sentimenti e basta, ma diventa qualcosa di più, straripa, tracima in una visione che pur restando dentro nell’animo conduce inesorabilmente fuori, nella realtà della vita universale…La forza devastante di questo nuovo modo di fare poesia è nella parola, nella fantasia evocativa, nell’interiorità tradotta in un segno universale…Entriamo, quindi, ne”Le bateau Ivre” per iniziare anche noi il viaggio. E’ necessario immediatamente annotare che all’interno di questa circumnavigazione non c’è alcun obbligo cronologico, tale itinerario procede secondo tappe precise che è possibile ritrovare solo destrutturando il testo.
Appena presi a scendere lungo i Fiumi impassibili,
Mi accorsi che i bardotti non mi guidavan più:
Ignudi ed inchiodati ai pali variopinti,
I Pellirosse striduli li avevan bersagliati.
Non mi curavo più di avere un equipaggio,
Col mio grano fiammingo, col mio cotone inglese.
Quando assieme ai bardotti si spensero i clamori,
I Fiumi mi lasciarono scender liberamente.
Dentro lo sciabordare aspro delle maree,
L'altro inverno, più sordo di una mente infantile,
Io corsi! E le Penisole strappate dagli ormeggi
Non subirono mai sconquasso più trionfante.
Queste prime tre strofe segnano la partenza del viaggio. Come si nota, è un distacco brutale, drammatico, dove il poeta ci comunica il deragliamento di tutti i sensi e le maree diventano gli ostacoli che s’incontreranno.
Più dolce che ai fanciulli qualche acida polpa,
L'acqua verde filtrò nel mio scafo di abete
E dalle macchie rosse di vomito e di vino
Mi lavò, disperdendo il timone e i ramponi.
Da allora sono immerso nel Poema del Mare
Che, lattescente e invaso dalla luce degli astri,
Morde l'acqua turchese, dentro cui, fluttuando,
Scende estatico un morto pensoso e illividito;
Dove, tingendo a un tratto l'azzurrità, deliri
E ritmi prolungati nel giorno rutilante,
Più stordenti dell'alcol, più vasti delle lire,
Fermentano i rossori amari dell'amore!
Io so i cieli che scoppiano in lampi, e so le trombe,
Le correnti e i riflussi: io so la sera, e l'Alba
Che si esalta nel cielo come colombe a stormo;
E qualche volta ho visto quel che l'uomo ha sognato!
Ho visto il sole basso, fosco di orrori mistici,
Che illuminava lunghi coaguli violacei,
Somiglianti ad attori di antichi drammi, i flutti
Che fluivano al tremito di persiane, lontano!
Sognai la notte verde dalle nevi abbagliate,
Bacio che sale lento agli occhi degli Oceani,
E la circolazione delle linfe inaudite,
E, giallo e blu, il destarsi dei fosfori canori!
Ho seguito, per mesi, i marosi che assaltano
Gli scogli, come mandrie di isterici bovini,
Stupito che i lucenti piedi delle Marie
Potessero forzare i musi degli Oceani!
Ho cozzato in Floride incredibili: fiori
Sbocciavano fra gli occhi di pantere con pelli
D'uomo! In arcobaleni come redini tesi
A glauche mandrie sotto l'orizzonte dei mari!
L’immediatezza delle parole di queste strofe porta immediatamente il lettore all’interno di un mondo ove tutto è possibile, dove, dopo la purificazione sul filo danzante della leggerezza, si materializza il reale senso del viaggio. S’intravedono, chiari come gabbiani che si lanciano nella tempesta, quei dubbi del poeta: la morte, l’amore… Ma con l’avanzare del viaggio, la sinfonia dell’interiorizzazione acquista sempre più toni, chiaroscuri più abbaglianti fino a raggiungere il delirio d’immense fusioni di terre, acque, paludi, fiori, piante e animali. Da questa apparente confusione si potrebbe affermare che Rimbaud ci voglia condurre verso il vuoto, l’illusione, ma in realtà è suo intento portarci dritti verso la profondità dell’ignoto e la verità dell’esistenza. In tutte le altre strofe successive, il poeta, guardandosi attraverso lo specchio dell’inquietudine legata a vicende personali, percepisce tutta quell’ansietà e ossessione con cui in vita ha dovuto inevitabilmente convivere…Tutto ciò lo indurrà ad una insinuante nostalgia per l’Europa e dai parapetti di questo battello riconosce il bisogno di una radice…Nella strofa 23a lo strazio esplode totale ed aperto, con la gridata speranza « Che la mia ciglia scoppi! Che vada in fondo al mare! ». Ed infine il capovolgimento: con commovente consapevolezza Rimbaud, slegandosi dall'immagine auto-creata di eroe dell'ignoto e degli oceani, si ritrova bimbo triste accoccolato accanto ad una pozzanghera. Ma questa non è una fine: il bimbo ricerca, affidando però sé stesso all'umiltà di una barchetta fragile farfalla. Forse il viaggio deve essere nuovo e diverso.
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