C’era una volta un cadavere felice. Giaceva in una bara colma di baci e non coltivava la minima intenzione di scivolar fuori ed esser libero. Al contrario si godeva la sua bella morte e al minimo sentore di una tentazione diversa, di una stilla di nostalgia del vivo essere libero che era stato un dì, si rincantucciava in fondo in fondo al suo dolce letto di baci, sentendosi quietato e contento.
A che pro, si domandava, dannarsi con la vita furente caotica snervata che gli brulicava di sopra, mentre i dolci baci lo ricoprivano interamente di delizie trasumananti? Se trasumanava, già, perché umanizzarsi ancora, di nuovo, reincarnarsi nella detestata vita per andare ancora alla ricerca di ciò di cui già qui, ora, disponeva? Non era questa la felicità: essere morti di baci?
Sì, già, però, insomma, com’erano questi baci, chi li dava? Lui non ne sapeva un accidenti, supponeva soltanto, così, a naso, che la gioia che gli causavano fosse certamente collegata, in qualche modo, coi suoi amori terreni di una volta, quando era di là. Certo, un collegamento un po’ arbitrario, che aveva escogitato da sé e per sé. Nessuno poteva rassicurarlo su ciò: chi garantiva, insomma, per questi baci? Erano proprio tali, o lo stavano ingannando? E se, per esempio si fosse solo trattato di vermi che lo rosicchiavano per benino? Lui che poteva saperne? Nessuno, prima, gli aveva mai accennato al problema. E se facesse piacere essere mangiati dai vermi? Se scambiassimo, giunti a quel punto, per baci i loro morsi macabri e voraci?
Sì, magari era così. Però, in fondo, che contava? La cosa fondamentale, insomma, non era essere felici? E lui lo era, anche se oramai morto. Chissenefrega se i baci mi divoreranno, pensò, essere felici è ciò che conta e non c’è più tempo per un’altra scelta.
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