Scritto da © Hjeronimus - Dom, 02/01/2011 - 14:34
Il mio Golem va inteso come una specie di via di mezzo tra un fantasma e un fantoccio. Con alcuni lineamenti autobiografici di tanto, ossia troppo tempo fa.
“Io sono il tuo triste Golem che ti ha sempre amato così tanto...
Io sono la lugubre gondola che scivola sul Canalgrande dell’esistenza, ma senza esistenza...
Io son l’aria, l’umidità sfiatante dai canali spossati dopo giornate afose ed infinite, trascorse tutt’uguali lungo gli scoscendimenti di età tutte uguali...” diceva il fantasma, e anzi urlava, senza che alcuno ne ricevesse l’eco, dalla ringhiera del vaporetto numero 1 e avvolto in un logoro manto blu-notte e nella notte qui gotica e all’altra zattera barocca, d’una Venezia di lettere d’oro e di surrealismi mnestici e dolenti. Poi attaccava al violino la Suite di Bach, facendo vibrare sensibilmente gli scafi degli attigui natanti, pur senza rivelare all’udito indolente dei turisti alcunché di musica o di note...
“O notte scintillante, innalzo verso te il gemito estenuato e stridente ormai dei miei ‘amati archi’ antichi, o notte vivaldiana e vacillante che accogli nella tua muta stretta il mio canto cieco, che tu sola sei conscia della mia avversione allo splendore, tu sola sai che quelli come me, la luce li odia, li respinge e li annienta se li cattura...”. E di nuovo innesca la sua “scherma” di filamenti sonori per avvolgere il sonno “fiorito” del Canalgrande in un’aura di nostalgia, di desiderio smarrito e irreperibile, come di un sogno tanto antico da frangersi in polvere. Ed eccolo infatti screpolarsi in un guaito accorato e dissonante, all’atto accecante di uno scatto fotografico, e di un giapponese gaudente che sorride pago di sé, e scacciando l’invisibile musicista dal suo estatico osservatorio. Barcolla ferito verso la prua dell’imbarcazione, incespicando tra valigie e bagagli stipati ovunque, e vede il ponte dell’Accademia, nei cui pressi, un tempo, s’era svolta la sua toccante pantomima amorosa. Mai prima aveva conosciuto l’amore, e da quel tempo lontano mai più aveva potuto divincolarsi da quel sogno aggraziato e dolorosamente reincarnatosi ogni giorno, per tutti i giorni a seguire, nei suoi solinghi vagheggiamenti.
Da allora, dal 1709 forse, o dal 1859, o dal 1979, chi poteva più oramai tener mente di questi numeri?, egli s’era fatto Golem, per girovagare la laguna alla ricerca della sua damina mora, posseduta e perduta, nella notte del tempo, per sempre...
E nelle nere notti d’acqua scintillante e ondivaga, prodigava la sua arte sublime pizzicando amaramente il suo amato strumento e cercando di ricordare che cosa fosse accaduto.
La sua diletta, la sua dama corvina s’era data e s’era sottratta, come per un incantesimo malvagio che avesse voluto fargli soltanto pregustare la delizia di quella grazia astrale, per poi immediatamente farla vaporar via nella notte merlettata e leziosa della città dogale, e cacciarlo, anche, in nu tormento senza pause né tempi. E allora lui montava su il suo violino e gli faceva piangere i suoi sibili più accorati, in memoria di quell’acme, quell’auge della sua vita resosi per sempre irreperibile e che della sua vita era stato l’unico atto puro. Non v’erano altri dèi all’infuori di quello e avendo sfiorato la divinità, il vivere non era più interessante, non più di quel che si può definire essere, esistere, di un Golem...
“Dove? Dove?” Ricominciò il suo ineffabile monologo, e gettando un’occhiata umida e trasognata all’edificio che li aveva allora accolti, lui e lei, ospiti innamorati di un’alcova discreta, silenziosa, dai muri alti e neri, ove forse il ricordo ancora annaspa, incorruttibile, ancora oggi, straziante, meraviglioso, inammansibile... “Dove sei andata?...”, ripeteva, di nuovo sull’onda di memorie precipitanti, ipnotiche, di nuovo preda della sua cupa estasi, arrovesciata in quel dolore sordo e cieco che lo faceva sopravvivere in quel suo luttuoso non-essere. Così rivisse quel suo remoto primo atto d’amore, rivide dentro il suo occhio gonfio di lacrime la sua bella nuda, che lo avvinceva, lo avvolgeva nella spirale del suo tenero e caldo erotismo, gli spremeva deliziosamente il piacere da ogni angolo del suo corpo, innalzandolo alla mortal gloria d’una sorta di plus-valore, mortale e palingenetico, in cui, infatti, morire e risorgere... E adesso risorge, difatti, mercé la sua disperata sibilla musicale tuttavia, intesa a inerpicarlo sull’erta maledetta e irresistibile della memoria, e lui ri-concepisce, al “pianto” affilato della suite bachiana, la sua estasi e la sua dannazione.
E ora gli si fa da presso un capannello di turisti americani, con una cinepresa: vogliono immortalarsi contro il palcoscenico magniloquente di quell’impressionante bellezza. D’un tratto fan luce gigantesca contro la dolorosa ombra del violinista che si “stampa” in una sorta di nerofumo contro il biancore lapidario della “Salute”. E’ un baleno: l’occhio esterrefatto dei turisti coglie quell’arcano frangersi sulla pietra dell’ombra venuta dal nulla, e sembra, ancora, di percepire lo straziante ululato di un “arco” svanente, pari all’ombra, nel nulla.... qualcosa che fumiga, s’involve... una nuvola di morte ricopre la non più allegra brigata dei cine-amatori e sembra loro, per una volta, di percepire il dolore di qualcosa di estinto, lontano,. come di un’epoca trapassata che avesse voluto resistere, in un sovrumano conato d’amore, alla ruota ineluttabile del tempo. Ma è solo un istante. In pochi secondi la norma è ristabilita e il regista riattacca la sua video-registrazione.
Così, a Venezia resta solo l’ombra del Golem che solo laggiù conobbe l’amore. Se andate alla Chiesa della Salute, cercatela, che anche solo l’ombra di un amore riluce, in un solo attimo, più che tutte le Las Vegas notturne del nostro sconsolante evo tecnologico.
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