Scritto da © Maria34 - Lun, 04/10/2010 - 22:14
Venezia nasce sovrana dal mio cuore. Balza dalle acque del ricordo di nove lustri fa, tra lo stupore che si fa spazio, nascosto tra le pieghe dell'adolescenza. Pubertà di gita scolastica, tra fredde lenzuola di un Ostello e una canzone dei quattro ragazzi di Liverpool. Lei dai capelli biondi, baci confusi tra adolescenti, tenue sapore di gomma da masticare e attimi rubati alla pioggia.
Venezia ritorna sul moto ondoso della marea, anni dopo. Noi, tra specchi e vetrine, mano nella mano, a perderci tra calli e sorrisi. Immersi con trasporto nella nuova vita di coppia che si va definendo, confusi tra tutti i nostri ieri e, forte, il domani.
Perdersi, camminando, con lo sciacquio delle onde che accompagna i nostri passi.
S. Marco è un gioco a monopoli, un plastico in miniatura privo di trenini e capostazione. Bolle di luce mascherate da cupole, dipinte sulle onde del mare, simili ad aerostati imbrigliati dalla gravità, mongolfiere che si riflettono sulle lastre di pietra baciate dalla pioggia.
Venezia è uno sparo nel buio, una partitura musicale, un eterno divenire.
Lenta ti assale, avvolgendoti tutto, facendo tastare l'acqua alta, tra lo stupore di palazzi, chiese e basiliche, custodi dell'immaginifico, pronte a levarsi da terra, a fuggire, spiccando il volo.
Venezia è uno spasso estivo, un adagio, un verbo, tra la fragranza d'acqua marcia e la luce che gioca a rimpiattino con gli spicchi della laguna. Tra il vociare dei turisti e i locali che si contano all'appello mattutino, dove qualcuno manca sempre.
Cammini, corri, ti fermi, respiri affannato al riparo di un sottoportego, o sui gradini di un ponte. La pietra la senti fredda, pronta a staccarsi. Chiudi gli occhi, ti sembra, sfuggendo alla gravità, di galleggiare sull'acqua. Di andare lontano.
Cielo e acqua. Un blu, privo di nuvole, che si immerge, come una pigra bagnante, nell'acqua. Metamorfosi anfibia trasformata in città, tra fucine e magazeni. Tra oro e broccati, che trasudano sudor di schiavi. Perdersi, per poi ritrovarsi in sì selvaggia bellezza, dove il suono si arrende offrendo spazio alla forma. E l'acqua fagocita il tutto. Case, struggenti quinte che racchiudono scene di vita quotidiana, avvolte da un eterno teatro galleggiante. Vite che si rinnovano, che emigrano, fuggono da artrosi climatiche, da una città fascinosa-alquanto-faticosa, lasciando spazio a un turismo frettoloso e occasionale, come un breve respiro.
Poi la luna avvolge le ombre, regna sovrana sugli arcani celati tra le imposte chiuse e i gatti, dalle sette vite, che si azzuffano attorno a una vera di pozzo. Passi che rimbombano sul selciato, rimbalzano tra le crepe dei muri, che si perdono in lontananza. Un brivido.
Sollevi il colletto del giaccone, ti affretti, serrando il passo, verso una camera d'albergo calda e accogliente. Un diaframma di intimità fra te e la notte, mentre in alto, sulla laguna, muta testimone, ti osserva la luna.
Rinaldo Ambrosia
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