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Maria Dulbecco

 

Poesie e Prosa di Maria Dulbecco

Pomponio

 

      Da tre giorni mi perseguita il ricordo di un aneddoto che mio padre  prendeva ad esempio di qualcosa che bisognava solo aspettare perchè accadesse. Ricordava un episodio realmente accaduto,  riguardava i briganti che nel tardo 700 imperversavano in Abruzzo.
       Non so se l'ho mai detto, io vivo in Piemonte ma sono nata a San Salvo (Ch) appunto negli Abruzzi.
       Tra i più famosi vi era un tale Pomponio che nessuno riusciva a catturare e costui si divertiva a sfidare le autorità preposte. Una volta su un muretto che si trovava lungo la strada San Salvo- Palmoli (strada che porta in momtagna) il tipo scrisse:  Per prendere Pomponio ci vuole un gran demonio"
       Un contadino che di lì passava, ha aggiunto: " Quando la pera sarà matura cadrà senza tortura"
       Questo racconto ha fatto si che incuriosita, ho comprato un libro sul brigantaggio in Italia ed ho trovato traccia di questo brigante che alla fine è stato catturato molto rocambolescamente e impiccato.
      Anche la nonna mi raccontava episodi di briganti accaduti ai suoi familiari e forse in seguito li racconterò

 

 

Il tempo

               Il tempo non perdona.
Ciò che il pensiero ti detta e non lo realizzi subito, non ha più senso farlo domani, le condizioni ambientali saranno mutate e l’effetto desiderato non ci sarà più.
Questo tempo che sembra immobile è invece velocissimo e non c’è posto per il rimpianto di non aver fatto.
Bisogna sempre mettere in atto ciò che il presente ci suggerisce, forse anche sbagliando, poichè le occasioni non si ripresenteranno.
Il tempo che passa lo intravvediamo nei segni che solcano i volti delle persone che abbiamo conosciuto un tempo e che rincontriamo a distanza: in quei segni leggiamo il percorso della vita.
Dobbiamo imparare a godere del presente e vivere con serenità quello che ci offre.
Un occhio al futuro ma senza lasciarci troppo condizionare al punto che non ci accorgiamo di esistere. Proiettati come siamo a quel futuro, non ci accorgiamo di chi o cosa ci passa accanto.
Da chi ci passa accanto dobbiamo imparare a cogliere e a dare come buoni compagni di viaggio. Un viaggio che si compie una volta sola.
Non sappiamo esattamente qual’è il momento per prendere e quello per dare. Fare attenzione a questo, sarebbe come tenere la contabilità del nostro cuore riducendo il tutto ad un arido fatto di somme.
Questo deve essere un gesto istintivo. Quando è necessario avvertiamo naturalmente quella sicurezza che ciò che stiamo facendo è bene.
Sentiamo il nostro compagno che ansima, ha il fiato corto e senza che se ne avveda, mettiamogli una mano sotto il braccio e aiutiamolo a proseguire il cammino.
Così quando avvertiamo di essere stanchi e le forze ci vengono meno, senza sentirci umilati, accettiamo il braccio che ci viene offerto e proseguiamo, certi di far felice anche chi si è soffermato ad aiutarci.
Il tempo costantemente batte il suo ritmo e l’oggi diventa subito domani, quel domani che ci attende per permetterci di sempre ricominciare.     

 

                  La nonna

Non ti ho mai dimenticata.
Eravamo sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate io e te, nonna.
Tu pregavi. Io sognavo.
Tu pregavi. Io guardavo le stelle.
Quelle stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.
Qualche volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi raccontavi episodi della tua vita quando mi sentivi predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una sera mi hai fatto notare come in quel disco luminoso si vedesse nitidamente la figura di un uomo che cercava di oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di sterponi cercava di oscurare la luna e nel tentativo di coprirla, perché gli altri non lo vedessero mentre rubava i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu condannato a restarci per l’eternità”.
Io vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a quel povero Bertoldo che sicuramente non si trovava a proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più con noi. Quelle ombre non erano di Bertoldo, ma delle montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo crederci, ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche prima, ma io preferivo credere a te.
Hanno cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu pregavi. Io fantasticavo.
No, non ricordo amore.
Già da piccola avvertivo che in quel paese non c’era calore, sapevo che sarei dovuta andare via.
Le strade erano di fango e le case non avevano acqua corrente.
Il banditore, a pagamento, annunciava dove andare a comprare i piselli freschi e se in piazza era arrivato il pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si faceva precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in gola reclamizzava la merce e il luogo.
I carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino presto per i campi e tornavano alla sera in fila superando la salita della “curva” oppure quella più ripida della “fonte”.
Fatti importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un matrimonio, le due feste patronali del paese quando arrivavano persino i gelati.
Non dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza di qualche anno uno dall’altro. La mia piccola mente non poteva concepire come un fratello potesse togliere la vita ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure le persone si sposavano e i bambini nascevano come in ogni altro posto.
Non c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le carezze erano gesti ai quali gli abitanti non erano avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa perché si asciugasse in fretta. Quando era più abbondante la si portava con una tinozza fino al lato della strada dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio, nella quale scorreva un rigagnolo che provvedeva a convogliare queste acque tutte nella medesima direzione, la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra del paese.
Non c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi tantissimo quando subito dopo la guerra si fecero gli scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle case.
 
In quel periodo era possibile camminare per le strade, solamente grazie alla buona volontà di molti che, spinti dalla necessità, avevano provveduto a posare uno dopo l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole umili suore che si adattarono ai nostri usi e ci insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche questo lo tenni celato come ogni altro sentimento senza mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno, freddezza, rudezza.
Questo è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno saltuariamente trovandolo sempre diverso ricordando che: io ero qui quando questa terra era ostile e regalava solo poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza risorse.
Ora tutto è in fermento, tutto in costruzione. I volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i nuovi arrivati, sono tanti e li vedi padroni di quei tuoi sogni defraudati a te dalla vita che lenta, inesorabile, ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di burrasca.
Alla sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte mi lasciavo rapire da quel rumoreggiare lontano e affascinante che proveniva da quell’enorme massa d’acqua in movimento.
L’Adriatico doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri di distanza ne percepivo un suono così distinto.
In quelle notti il cielo era limpido e il mare si sostituiva alle stelle per regalarmi sensazioni stupende.
La battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al mio udito.
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi ormai  vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.
La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli affanni.
Quando ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in quella piccola stazione sulla direttrice Lecce-Milano, lasciavo alle spalle un paese che viveva arroccato sulla prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un percorso difficile da superare poiché, anche se non sto parlando del medioevo, i mezzi di comunicazione e trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si vive nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori familiari, quelli del fabbro, del falegname, anche quello della macchina da cucire di mia madre, delle campane e dei passi che risuonavano nelle strade.
Nei pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura conciliava le pennichelle dei suoi abitanti.
 
Eugenio suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il significato ma allora era il tardo pomeriggio. In tempo di mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano per una merenda.
Poi Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’ “Ave Maria” e terminava la sua fatica chiudendo la porta della chiesa e avviandosi verso casa con un’andatura leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava poi l’ “alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla domenica poi, in occasione della “messa cantata” suonavano a distesa.
Mentre queste scampanellavano, le donne in casa erano affaccendate ai fornelli e dalle finestre uscivano profumi di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla domenica poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la pasta asciutta impastata in casa, condita con semplice pomodoro e magari con una spruzzatina di pecorino.
La monotonia del suono delle campane che scandivano il tempo nell’arco della giornata, veniva rotta solamente dal diverso scampanio che annunciava una morte o l’arrivo di nubi minacciose che promettevano vento e grandine magari proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a grande maggioranza.
Il suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli abitanti era greve e lento. Rintocchi tristi che venivano ripetuti più volte a distanza ravvicinata e il numero delle volte era determinato dall’importanza del personaggio.
A quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad interrogarsi.
La vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?” “Non so” facevo eco zia Serafina affacciandosi alla finestra.
La nonna si spingeva più in là e arrivava sino in cima alla “ruella” che sbucava sul corso principale. Al primo passante chiedeva e dopo parecchi “non so” che duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo arrivava il nome.
Allora, la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a crocchia sulla sommità del capo, si metteva un fazzoletto in testa legato sotto il mento, possibilmente nero, e correva a portare il primo saluto della famiglia, ai parenti del morto i quali erano già pronti per ricevere quelle visite seduti attorno al defunto adagiato sul letto allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla sera andavano gli uomini, mentre le donne si organizzavano per la veglia notturna.
Prima della guerra non esistevano “thermos”, ma poi arrivarono anche quelli e così il caffè veniva portato caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi e bevande calde.
Ogni familiare era rigorosamente seduto al posto che gli competeva a fianco del letto, secondo il suo grado di parentela.
La stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili trasportabili e al loro posto venivano allineate sedie in gran quantità così che i visitatori trovassero posto a sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si soffermava in questa stanza come a voler tenere compagnia al morto, per l’ultima volta.
Il motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’ tutti ed era l’occasione per conversare, anche se sommessamente.
Qualcuno si fermava più del necessario per raccogliere maggiori informazioni sugli ultimi avvenimenti degli altri o aspettando magari qualche persona che non vedeva da tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro famiglie e sui fatto dei paese e non di rado, si gettavano le basi per combinare matrimoni tra giovani che neppure si conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori valutare la convenienza sociale ed economica di favorire un simile approccio.
 
I componenti della famiglia del malcapitato, a turno, piangevano il morto a voce alta e con una specie di cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le qualità.
Nel caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un po’ carognetta verso alcuni familiari, costoro coglievano l’occasione per intercalare le cantilene con frecciatine, più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non raramente i chiamati in causa rispondevano con lo stesso indiretto sistema.
In questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza, fuori dalla casa, così che i curiosi visitatori diventavano più numerosi per non perdersi le varie battute.
L’avvenimento di una morte si trasformava così in un’occasione per comunicare e conoscere le storie di attualità del paese. Era la televisione o il settimanale scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva ascoltato e riferito a chi non era presente.
Era cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con autentico mistero, cronaca nera. Tutto il paese passava sotto i racconti delle croniste del tempo poiché le più informate erano sempre le donne.
La signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la serva a raccogliere informazioni e questa si documentava scrupolosamente per riferire ogni particolare che riteneva potesse interessare la sua “padrona”.
E queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero accentrati tutti i discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio espletava tutte le incombenze relative ai funerali.
Suonava le campane a morto, preparava il catafalco, le sedie in chiesa e non dimenticava niente. Tutto veniva allestito secondo i desideri dei familiare e in proporzione alla retribuzione concordata.
Lui, Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’ sfiatato a causa del mantice ridotto in cattive condizioni e cantava i salmi con un biascicato latino che non era necessario fosse comprensibile; l’unico latino ‘conosciuto’ era infatti quello delle preghiere recitate dagli anziani del paese ascoltando le quali si poteva intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si occupava di tali faccende.
Viveva ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio arricchimento intellettuale che poteva coltivare anche grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio esistenti in paese che tra l’altro (si diceva che ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di essere sempre aggiornato sugli ultimi bollettini di guerra.
L’ultimo atto della vita vissuta in quel paese era quello di essere accompagnato dal parroco e da tutti gli abitanti lungo il viale alberato che conduceva al cimitero.
Dal 1944 in poi nei discorso di tutti, gli avvenimenti venivano indicati come accaduti:
-          prima della guerra
-          dopo la guerra.
 

  Vele

 Vele che partono insieme
        gara gioiosa
        seguita da occhi
        di sole.
        Bimbi che corrono
        sulla sabbia bollente.
        Vele confuse
        spuma di mare
        gioia di un cuore
        che sa donare amore.
 

Il gabbiano

Da “ Il gabbiano Jonatan Livingston”
Di Richard Bach 
“Quei gabbiani che non hanno una meta ideale e che viaggiano solo per viaggiare, non arrivano da nessuna parte e vanno piano. Quelli invece che aspirano alla perfezione, anche senza intraprendere alcun viaggio, arrivano ovunque. 
(per arrivare) tu devi innanzitutto persuaderti che ci sei già arrivato
pag.72 e, per lui, mettere in pratica l’amore voleva dire rendere partecipe della verità da lui appena conquistata, qualche altro gabbiano che a quella verità anelasse”
 
Mie considerazioni:
   
     Il desiderio di volare sempre più in alto, come il gabbiano Livingston, porta inevitabilmente ad una solitudine non voluta.
     Infatti lui desidera che gli altri lo imitino ma questi presto si stancano e lui resta solo a cercare di raggiungrtr la meta e forse la delusione di non essere emulato farà sì che lo scopo non venga raggiunto neppure da lui.
    Quando vedo i gabbiani volare basso sui fiumi sporchi e a stormi raggiungere cumuli di rifiuti alla ricerca del cibo, vorrei cercare l’autore del libro e fargli notare come l’adattamento dei gabbiani li ha fatti scendere così in basso.
Quanti pochi Gionatan, proprio come gli uomini: la maggioranza sono quelli che si azzuffano per strapparsi tra loro quei rifiuti con grinta e cattiveria.
 
 
 

La zia

                                         Zia. La chiamavo zia ma in realtà non eravamo neppure parenti
 

Era venuta ad abitare vicino a casa mia da circa dieci anni.

Vedova, abitava da sola. Quando era arrivata aveva già settanta anni ma non li dimostrava. Agile e deliziosa, si vestiva con cura, le piaceva condurre una vita confortevole e dignitosamente vivace.

È proprio vero che gli anni non si misurano dalla nascita ma dall’aspetto e dallo spirito che una persona conserva dentro se stessa.

Eppure aveva avuto una paralisi facciale, qualche anno prima e il suo cruccio era quella bocca leggermente storta che ogni giorno, guardandosi allo specchio, cercava di correggere. Con un po’ di trucco leggero e garbato e un po’ di ginnastica facciale inventata da lei, ci era riuscita, si avvertiva appena e la sua vita scorreva tranquilla.

              A ottantasei anni, la guardavo ultimamente in quel letto rivolta spesso a guardare le due foto ben incorniciate ed esposte sopra il comò: una del marito, da tempo scomparso, ed una dei suoi passati trent’anni.

Un ritratto ben fatto, bella, uno sguardo di occhi chiari e superbi, onde dei capelli corti e ben sistemati, alla moda degli anni trenta.

Su quel letto, vedevo ancora lo stesso sguardo, lo stesso portamento altero di chi non vuole arrendersi, di chi non vuole concedere agli anni e al male la sua parte e senza forzature artificiose ci era riuscita.

Aveva dei capelli bianchissimi e bellissimi, un bianco che creare artificialmente non è possibile, morbidi, impeccabilmente pettinati. Gli occhi chiari maliziosi e sfuggenti in un ultimo guizzo di civetteria. Un corpo snello ancora da mannequin, come amava definirsi prima di cedere il passo al male e al letto.

Nulla voleva concedere a quel male che avanzava e che lei rifiutava di qualificare per quanto veramente era. Non sono mai riuscita a penetrare quella mente ancora così lucida e capire se: sapeva!

Certo, l’aiutavo anch’io nel rafforzare la sua convinzione.

Quel male, lei diceva, le era venuto per suo errore, una infezione: un giorno, raccontava, mentre eseguiva le pulizie igieniche del suo corpo, si avvide che sotto il piede si era formato un pezzetto di carne sporgente come un filo molto spesso. Senza rifletterci su tanto, passando le mani nell’atto di lavarsi, l’aveva afferrato e strappato pensando così di disfarsi di quel piccolo imbroglio che poteva dare fastidio a lei che a ottanta anni portava ancora i tacchi alti.

La sua figura alta e snella acquistava maggior risalto con quei tacchi alti con i quali era abituata a camminare sin dalla sua gioventù che quella foto le rammentava.

Con nessuno parlò di questa cosa che in fondo era un suo fatto personale, lei era abituata da sempre a gestirsi da sola e a curare la sua salute con risultati eccellenti.

Dopo qualche mese però, quello strappo si mutò in una infezione e questa infezione, nonostante i medicamenti che eseguiva, cresceva.

Come un fiore che sboccia, senza alcun dolore (o era lei tanto forte da non denunciarlo) si limitava ad aumentare le foglie del male che non si aprivano a corolla ma si sovrapponevano, come un bocciolo di rosa nel tardo autunno quando il freddo incombente non gli dà la possibilità di aprirsi.

Queste foglie o petali si aggrovigliavano in una maniera raccapricciante formando una notevole protuberanza.

Uno sguardo rapido del dottore, il dubbio sciolto dagli esami in ospedale: “melanoma maligno”.

Certo i suoi occhi avevano colto un barlume di verità, ma il suo spirito indomabile non l’accettava.

Decise di seguire ogni terapia consigliata dai dottori ed erano loro gli amici che più considerava.

Cominciò così un lungo periodo di visite quindicinali al Day-Ospital San Giovanni di Torino.

Considerando l’età e non tenendo conto dello spirito giovanile, non ritennero opportuno intervenire chirurgicamente amputando il piede e iniziarono con una cura che consisteva nel praticare una serie di punture attorno alla parte malata nell’intento di arrestare questo dilagante male inguaribile.

I risultati erano apprezzabili ma la zia non poteva appoggiare il piede per terra vista la posizione in cui si trovava la protuberanza.

Per di più necessitava di medicazioni multiple giornaliere e bisognava fare i conti anche con emorragie saltuarie.

Un giorno disperata e un giorno ottimista, il tempo trascorreva e va detto che per lei quel doversi recare saltuariamente al Day-Ospital era diventata un’occasione di evasione; attendeva quel giorno come una fanciulla attende di recarsi ad una festa. Si preparava per tempo in ogni minimo particolare, voleva essere elegante e quindi terminata l’ultima visita, cominciava a prepararsi per la successiva; curava il colore di ciascun capo abbinando con gusto i colori della camicetta, dei pantaloni e dei foulard i quali erano il suo debole, ne possedeva di tutte le tinte.

Quando entrava al Day-Ospital, lo faceva festosamente, salutava i malati che incontrava nei corridoi e nelle stanze con allegria. Passava in mezzo a persone che avevano solo più in fondo agli occhi la speranza e li rincuorava; riusciva a trasmettere in questi cuori un briciolo di serenità fino a far spuntare un sorriso su labbra da tempo non più avvezze a quell’atteggiamento.

Reclamava il suo posto informandosi cosa avessero di buono in cucina come se si fosse recata al Grand Hotel ed un suo cruccio era che la cucina non disponeva di vino tanto che le infermiere, se ne avevano in proprio, gliene portavano un po’ così mangiava più volentieri.

Questo durò qualche anno, poi ci fu la bronchite e il ricovero in un ospedale diverso della città.

Il suo fare, il suo pretendere educatamente e scherzosamente faceva sì che tutti la trattassero con compiacenza.

Fu così che, guarita dalla bronchite, il primario volle parlarmi comunicandomi che la paziente aveva ben reagito alla malattia guarendo perfettamente ed espresse il suo parere su quel male che divorava il piede. Il suo consiglio era: amputare.

AMPUTARE, una parola che mai avrei ripetuto alla zia, ne sarebbe rimasta sconvolta, senza più la speranza di tornare a camminare.

Esclusi questa possibilità e il giorno dopo sarebbe tornata a casa per ricominciare la solita terapia sin lì seguita.

Invece al mattino seguente, trovai la zia che con fare autoritario di chi è ancora padrone della sua persona, rivolta ad una sua nipote disse:

“ho deciso di tagliare questo piede che mi fa tribolare”

“sei sicura?”

“Sì, la gamba è mia e ne faccio quello che voglio”. La nipote ribatté: “Ti rendi conto che resti senza un piede?”

“Certo” rispose “però non avrò più questo marciume infetto che provoca puzza e repulsione. Il professore ha detto che la mia salute è buona e che posso vivere altri dieci anni, con un arto artificiale sarò ancora in grado di camminare e vivere più serena”.

La decisione era presa e la volontà di ferro.

E così tutto era andato come voleva. Amputata la gamba, rifatto un arto artificiale; ginnastica a tutto andare fino a tornare a casa in grado di camminare da sola persino senza bastone.

Era tornata a fare i suoi lavori in casa, si metteva i pantaloni per coprire l’arto artificiale e scendeva al bar per fare chiacchierate con gli amici di sempre.

E questo a ottantatre anni.

Eppure quel male era in agguato. Non rispettava tanto coraggio e per ben due volte ancora si era riprodotto più in alto su quel pezzo di gamba che era rimasto.

Con coraggio aveva subito altre due operazioni e sempre, Lei, aveva ripreso a vivere gioiosamente.

Questo alternarsi di ricoveri in ospedale e di ritorni a casa faceva ormai parte delle sue abitudini. Il consiglio di disfarsi della casa e di andare a vivere in un pensionato veniva escluso categoricamente. La sua pensione non era altissima ma sapeva amministrarla con parsimonia e giudizio sì da avere sempre qualcosa per persone che potevano essere a lei utili.

Diventava, in questi casi, generosissima e volentieri si disfaceva di quel braccialetto, di quella catenina d’oro che possedeva e li regalava per aver avuto un giorno di compagnia. Qualche volta la rimproveravo, sempre con il sorriso, ma poi le davo anch’io qualche oggetto affinché lei potesse a sua volta regalarlo, tanta era la gioia che provava nel farlo.

Ma anche in questi regali c’era un pizzico di malizia: questo faceva sì che chi l’aveva ricevuto si sentisse in qualche modo obbligato e lei stessa, ricevendo il servizio, non si sentiva in dovere di riconoscenza, in fondo aveva pagato.

Quanti piccoli o grandi particolari si potrebbero ricordare.

Quante piccole astuzie per far sì che le persone che aveva occasione di incontrare la tenessero in considerazione.

La gratitudine era riservata solo al suo medico curante il quale, conoscendo la natura del suo male, veniva a trovarla anche se non chiamato. Penso che quel dottore, pur abituato ai mali e ai malati sarebbe gratificato e certamente lo era, nel sapere quanto bene arrecavano quelle visite.

Ho passato qualche anno a seguirla in questo suo peregrinare tra ospedali e casa ma soprattutto gli ultimi sette mesi durante i quali ero impegnata vicino a lei in continuità volendo che sentisse vicino una presenza affettuosa.

In quel prodigarmi vicino al suo letto alleviandole le sofferenze con farmaci che i medici mi davano da somministrarle e con sorprese giornaliere a lei care, pensavo di averle dato tanto e quasi mi compiacevo. Ma ora che ho finito di adempiere al mio compito con il curare l’atto finale che mi aveva raccomandato il suo funerale, sentivo un gran vuoto, le mie giornate non avevano più senso, mi mancava quel contatto umano e quella voglia di vivere che sapeva trasmettermi.

Riflettendo attentamente sento che in fondo, in questo mio dare, pesa di più quanto ricevuto.

Ho assistito a qualcosa di irripetibile: ottantasette anni e una gran voglia di vivere, godendo di ogni piccola gioia e facendo progetti per il futuro.

Ed io che con la metà dei suoi anni, non riesco a pensare che si possano ancora fare progetti per il futuro.

 Premio narrativa 2° concorso

“Spazio Cultura“  1986   Mestre

 

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