Scritto da © Fausto Raso - Mar, 13/09/2011 - 17:39
Crediamo che nessuna parola italiana abbia avuto piú “fortuna” di quella della quale ci occupiamo in queste noterelle: emarginazione. È sempre sulla bocca di tutti, spesso a sproposito. Ma i “fruitori” per eccellenza di questo vocabolo sono gli “operatori delle scienze sociali”: psicologi, sociologi, insegnanti, psichiatri, assistenti sociali. Non c’è un dibattito televisivo in cui uno degli invitati non la “tiri fuori”: la causa di quanto sta accadendo, gentili signori, va ricercata nell’emarginazione in cui sono costretti a vivere questi poveri derelitti. Cosí sentenziò, tempo fa, un notissimo sociologo intervistato da un giornalista della Rai sul problema dei nomadi nelle nostre città. Cos’è, dunque, quest’emarginazione? C’è da dire, innanzi tutto, che abbiamo notato, con vivo stupore, che molti vocabolari non registrano il termine che deriva, ovviamente, dal verbo emarginare, vale a dire annotare, “segnare in margine”. Questa omissione dei dizionari (quelli da noi consultati) si può spiegare, probabilmente, con il fatto che il vocabolo in oggetto non esisteva nell’italiano antico, né, tanto meno, nel latino. Il termine è una voce gergale degli addetti all’arte tipografica e significa, alla lettera, “collocare fuori del margine” (il prefisso “e-” che si riscontra in alcuni verbi suggerisce l’idea di “esteriorità”: e-mettere; e-leggere) e indica, con la massima chiarezza, l’operazione per cui il tipografo colloca una parola o un gruppo di parole fuori delle righe e quindi del “corpo stampato”, nella parte bianca a lato, per metterle bene in evidenza. Se vi capita fra le mani un libro scolastico potrete notare, infatti, che molte parole sono scritte fuori del testo, sulla destra e, per lo piú, in neretto, appunto per evidenziarle. Con uso metaforico, cioè in senso figurato, è stato adoperato, anzi è adoperato, il verbo ‘emarginare’, con i suoi derivati (emarginazione, emarginato), per indicare l’azione per cui una determinata comunità o l’intera società tiene fuori del suo corpo - come una pagina stampata - un individuo o un gruppo di individui. A mo’ d’esempio potremmo dire che sono emarginati tutti gli immigrati in una città in cui non riescono a integrarsi con gli “indigeni”; coloro che per menomazioni psichiche o fisiche non vengono inseriti nella vita quotidiana e “normale” degli altri esseri umani; coloro che a causa delle loro idee diverse da quelle della maggioranza dei loro concittadini sono isolati e quasi respinti dagli altri; i moltissimi diseredati che la miseria tiene fuori delle condizioni, se non ottimali, per lo meno tollerabili della maggioranza delle persone che si ritengono civili.
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Daffare e da fare
Se consultiamo un qualunque vocabolario, il Treccani in rete per esempio, alla voce "daffare" leggiamo: daffare s. m. (non usato al plur.). - Lo stesso che da fare, sostantivato per indicare lavoro, attività in genere, che si debba svolgere, spec. se sia intensa o crei preoccupazioni: ho un gran d.; ho avuto un bel d.; il d. non mi manca.
A nostro modo di vedere, però, è preferibile la grafia univerbata solo quando "fare" è adoperato in funzione di sostantivo: povero Giovanni, avrà un gran daffare per tenere a bada tutti quei fanciulli. In grafia scissa quando il verbo ha valore... verbale: oggi non posso uscire, ho molto da fare.
Fausto Raso
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