Scritto da © Fausto Raso - Lun, 05/03/2012 - 12:40
Fausto Raso
Molte persone confondono il gergo con il dialetto, nel senso che li ritengono l’uno sinonimo dell’altro. Non è cosí, anche se i due termini possono essere considerati una lingua. Facciamo chiarezza, dunque, cominciando con l’esaminare il primo vocabolo: gergo. Sotto il profilo etimologico la voce, intanto, non è schiettamente italiana (o latina) ma francese, per la precisione il francese antico “jergon” o “jargon” (‘linguaggio degli uccelli’, quindi linguaggio ‘incomprensibile’). Il gergo, infatti, come lo definiscono i vocabolari, è “una lingua speciale usata dai membri di un gruppo che non vuole essere capito dal resto della comunità”, oppure “linguaggio convenzionale limitato a una ristretta categoria sociale” e per estensione “ogni linguaggio artificiosamente diverso dal linguaggio comune”.
Il gergo, insomma, si può definire una “lingua settoriale incomprensibile agli estranei al settore”. In altre parole: una “lingua convenzionale”, un linguaggio oscuro, per figure strane e lontane allusioni, adoperato in ambienti particolari perché la gente estranea non comprenda.
Abbiamo, cosí, il gergo burocratico, il gergo diplomatico, il gergo giornalistico, quello radiotelevisivo, quello sindacale, curialesco e via dicendo. Come diceva Voltaire, insomma, “ogni scienza, ogni disciplina ha il suo gergo incomprensibile, che sembra inventato solo per tenere alla larga i profani”. Sotto l’aspetto “storico” l’esigenza di un ‘parlare nascosto’ è antica quanto l’uomo: le pagine della storia sono “zeppe” di codici e cifrari destinati esclusivamente agli addetti ai lavori. La nascita ufficiale di questa lingua (il gergo) si può datare, però, dal Medio Evo. In quel periodo, infatti, ebbe la massima fortuna. Perché? È presto detto. Il mondo dell’epoca era popolato di ladri, vagabondi, ciarlatani, giocolieri, bari, soldati, guaritori, indovini ecc., che girovagavano da un luogo all’altro in cerca di “fortuna” o, meglio, cercando di... campare alle spalle degli altri. Tutti questi personaggi, dunque, per difendersi dagli intrusi che incontravano nel loro vagabondare si servivano ciascuno del proprio linguaggio corporativo o, se preferite, “settoriale”, fatto di allusioni o di parole convenzionali; parlavano, insomma, il “linguaggio degli uccelli”, cioè il gergo, incomprensibile, per tanto, agli estranei.
Antonio Broccardo, vissuto a metà del XVI secolo, aveva addirittura compilato un “vocabolario” del gergo del tempo. Possiamo cosí apprendere, per esempio, che “fortoso” indicava l’aceto; “chiaro” il vino; “pelosa” la... barba; “ruspante” il pollo. Ogni tempo, insomma, ha il suo gergo. Nel Risorgimento abbiamo i Carbonari e le Vendite, vale a dire le loro sezioni, mentre le “baracche” indicavano i luoghi d’incontro.
Le persone non piú molto giovani ricorderanno il gergo adoperato nell’ultimo conflitto mondiale: il “violino”, vale a dire il prosciutto; la “roba nera”, cioè il caffè; il “tabacco chinato”, ovverosia le cicche perché per raccoglierle da terra bisognava chinarsi; la “roba bianca”, la farina, lo zucchero e il burro. E concludiamo con alcune voci gergali dei giovani di oggi: le “care salme”, i genitori; la “gigia”, la zia; il “caricone”, l’insegnante che dà molti compiti per casa, quindi... “carica”; il “mammut”, la mamma; il “secondino”, la moglie; il “biodegradabile”, colui che è molto facile alle cotte; “lui”, il padre; il “gong”, l’intervallo scolastico e altri che ora non ci sovvengono. Come si può notare è una “lingua” il piú delle volte dissacrante ma ricca di immagini e molto critica nei confronti della nostra società.
Due parole, infine, sul dialetto il cui significato è noto: “linguaggio particolare di un ambito culturale e geografico ristretto, con variazioni non sostanziali nei confronti della lingua nazionale”. È “cosa” ben diversa, quindi, dal gergo. Il dialetto, quindi, si può definire una “lingua indigena”, vale a dire una lingua locale, nel nostro caso regionale.
L’etimologia è chiarissima essendo il latino “dialectus”, tratto dal greco “diàlektos”, ‘conversazione’, quindi... dialetto, cioè “modo di parlare (locale)”. A questo punto è necessario ricordare che il vernacolo non è – come molti ritengono – un sinonimo del dialetto ma una “particolarità” dello stesso. È, infatti, una “parlata di un determinato luogo che si differenzia per alcune ‘particolarità’ dal dialetto della zona piú vasta alla quale quel luogo appartiene”.
Fausto Raso
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