Scritto da © Fausto Raso - Mar, 27/03/2012 - 19:45
Proprio in una di queste lettere possiamo leggere che: “Parlando di tutto ciò che riguarda regole pratiche di una Corte, di una segreteria, io non mi valeva d’altri termini che regole, pratiche, costumi, e più correntemente d’ogni altro, stili. Al mio ritorno in Italia cominciai anch’io a dire ‘etichetta’. Può essere che si sia fatto male a profanar la lingua toscana con questo spagnolismo di più; il fatto si è però che oggi sento dire ‘etichetta’ anche da quelli che non sono stati a Madrid”. Dunque, “etichetta”, stando al Malagotti, significa, appunto, “comportamento sociale”.
Vediamo, ora, come è nata questa parola. La Corte spagnola era famosa oltre che per il suo sfarzo anche e soprattutto per la severità del suo cerimoniale, regolato da norme fissate giornalmente dagli alti dignitari secondo i dettami del re. Queste regole venivano scritte su alcuni speciali cartelli, chiamati “etiquetas”, che venivano affissi in vari luoghi del palazzo reale. Dapprima con “etiquetas” si indicò il cartello contenente le varie disposizioni reali, il cerimoniale, insomma, poi, più semplicemente il cerimoniale stesso. E in questo significato fu appreso da Lorenzo Magalotti che lo “esportò” pari pari nel nostro Paese, ottenendo un immediato successo – come si direbbe oggi – tanto che divennero subito di uso comune le espressioni come “rispettare l’etichetta”, “regole dell’etichetta”, “comportarsi secondo l’etichetta”.
Diversa per certi aspetti, invece, la provenienza dell’ “etichetta” nell’accezione di “marchio di fabbrica” e simili anche se le due ‘etichette’ sono “concatenate” tra loro. Vediamo. I nostri cugini francesi, fin dal Trecento, da un vocabolo teutonico avevano coniato un verbo, “estiquer”, che voleva significare “infliggere”, “attaccare”. Da questo verbo fecero – più tardi – un sostantivo, “estiquette”, divenuto in seguito, attraverso un processo semantico, “étiquette” che indicò dapprima, genericamente, una cosa fissata, attaccata in qualche luogo, e poi, in senso più ristretto, un “cartellino”, un distintivo attaccato a qualcosa come una bottiglia, una cassa, un sacco; insomma un qualunque recipiente con l’indicazione del contenuto. I nostri linguisti da quel termine francese foggiarono il nostro “etichetta” con il medesimo significato di “cartellino”.
Occorre dire, però, che alcuni anni prima anche gli spagnoli dallo stesso vocabolo tedesco coniarono, a loro modo, il termine “etiqueta” con il medesimo significato di “cosa attaccata”. Ecco, dunque, gentili amici, spiegato il perché del nostro “sì e no” all’inizio di queste noterelle.
L’etichetta intesa come “cartellino apposto su bottiglie, vasetti ecc. per indicarne il contenuto” oppure la “marca di fabbricazione” ecc. e l’etichetta nell’accezione di "cerimoniale" hanno la medesima “matrice” iberica pur avendo, per l’appunto, due significati distinti? La risposta è: sì e no. Ma vediamo di spiegarci. La maggior parte degli iberismi sono entrati nel nostro idioma attorno al Seicento. Proprio in quel periodo uno squisito scrittore – anche se non molto conosciuto – si recò in Spagna per studio e per diporto. Essendo un “uomo di mondo” ebbe modo di frequentare i salotti più raffinati e alla moda di quel Paese apprendendo, così, usi e costumi che “spedì” in Italia attraverso lettere indirizzate a parenti e amici.
Proprio in una di queste lettere possiamo leggere che: “Parlando di tutto ciò che riguarda regole pratiche di una Corte, di una segreteria, io non mi valeva d’altri termini che regole, pratiche, costumi, e più correntemente d’ogni altro, stili. Al mio ritorno in Italia cominciai anch’io a dire ‘etichetta’. Può essere che si sia fatto male a profanar la lingua toscana con questo spagnolismo di più; il fatto si è però che oggi sento dire ‘etichetta’ anche da quelli che non sono stati a Madrid”. Dunque, “etichetta”, stando al Malagotti, significa, appunto, “comportamento sociale”.
Vediamo, ora, come è nata questa parola. La Corte spagnola era famosa oltre che per il suo sfarzo anche e soprattutto per la severità del suo cerimoniale, regolato da norme fissate giornalmente dagli alti dignitari secondo i dettami del re. Queste regole venivano scritte su alcuni speciali cartelli, chiamati “etiquetas”, che venivano affissi in vari luoghi del palazzo reale. Dapprima con “etiquetas” si indicò il cartello contenente le varie disposizioni reali, il cerimoniale, insomma, poi, più semplicemente il cerimoniale stesso. E in questo significato fu appreso da Lorenzo Magalotti che lo “esportò” pari pari nel nostro Paese, ottenendo un immediato successo – come si direbbe oggi – tanto che divennero subito di uso comune le espressioni come “rispettare l’etichetta”, “regole dell’etichetta”, “comportarsi secondo l’etichetta”.
Diversa per certi aspetti, invece, la provenienza dell’ “etichetta” nell’accezione di “marchio di fabbrica” e simili anche se le due ‘etichette’ sono “concatenate” tra loro. Vediamo. I nostri cugini francesi, fin dal Trecento, da un vocabolo teutonico avevano coniato un verbo, “estiquer”, che voleva significare “infliggere”, “attaccare”. Da questo verbo fecero – più tardi – un sostantivo, “estiquette”, divenuto in seguito, attraverso un processo semantico, “étiquette” che indicò dapprima, genericamente, una cosa fissata, attaccata in qualche luogo, e poi, in senso più ristretto, un “cartellino”, un distintivo attaccato a qualcosa come una bottiglia, una cassa, un sacco; insomma un qualunque recipiente con l’indicazione del contenuto. I nostri linguisti da quel termine francese foggiarono il nostro “etichetta” con il medesimo significato di “cartellino”.
Occorre dire, però, che alcuni anni prima anche gli spagnoli dallo stesso vocabolo tedesco coniarono, a loro modo, il termine “etiqueta” con il medesimo significato di “cosa attaccata”. Ecco, dunque, gentili amici, spiegato il perché del nostro “sì e no” all’inizio di queste noterelle.
Fausto Raso
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