Scritto da © Hjeronimus - Gio, 23/12/2010 - 21:56
“Post office”, di C. Bukowski. In questa, come in altre “storie scellerate” di Bukowski, appare sempre un doppio contraddittorio, tra lui e la società che descrive, e tra lui e se stesso. Bisogna anzitutto ammettere come il suo parlato senza fronzoli e senza rallentamenti forma in sé il senso della sua scrittura.
Lì sta il bello, sembra dire, nel non mediare fra la vita, spicciola, rapida, battente, e il descriverla, senza tregua altrettanto. E quella qui descritta, è proprio la sua di vita. La sua esperienza, la sua lotta perdente, in ripiegamento dal posto fisso, dall’impiego infinito.
Annoto ancora che, non ostante la sua presunta “turpitudine”, tiene in considerazione attenta la scala dei valori, e ribadisce sempre e ogni volta, con un’attenzione tenera e disperata, l’affetto un po’ infelice che lo lega ai suoi amori, figlia compresa, ancorché, quando questi gli son tolti o se ne scappano, non reagisca e ne accetti la sottrazione con alcunché di ineluttabile nel comportamento- il che lascia immaginare tuttavia il prezzo doloroso che paga ogni volta. Come a dire: è così, è sempre così.
Il nodo fondamentale delle lettere di Bukowski viene dagli anni ’60. Dalla rivolta culturale e politica dei tempi They Are a-Changin. Dal ribaltamento dei costumi e dei consumi sessuali. Lui avrebbe voluto essere il narratore di questa liberazione, il cantore disincantato del piacere del proibito, fosse questo il sesso, o il bere, o chissà cos’altro. Voleva dirci del bello, un po’ ribaldo e dirompente, che c’era nel fregarsene delle convenzioni e abbandonarsi invece senza remore all’orgia e all’alcolismo. Voleva lo scandalo del corpo e delle sue pulsioni, senza infingimenti, senza edulcorazioni. Ed era scandalo, a quei tempi, dare fondo gioiosamente e liberamente ai propri desideri, portare all’apice la spinta al godimento sensuale che la società, viceversa, additava alla sottovalutazione e al disprezzo, considerando deplorevole quella specie di incontinenza reclamata dalle giovani generazioni. Sapersi contenere, dominare quegli istinti suonava per la società di allora come una specie di valore, mentre appariva ai suoi giovani detrattori come una forma di ipocrisia e di repressione. Perciò Bukowski, volente o nolente, era necessariamente contro la società. Cosa che diviene lampante nel suo romanzo: la società è il ministero delle poste, e lui è il nemico, il Donchisciotte che ne snobberà la morale. Fino ad infrangerne l’icona salvifica e anelata di tutto il sistema: il posto fisso. Licenziandosi.
Da un altro punto di vista, lo scrittore fa esattamente ciò che la società conculca: consuma con tutte le sue forze e fin dove può tutta l’offerta del mondo circostante. Vuole bersi tutta la birra, fottersi tutte le ragazze, sperperare al gioco tutti i dollari che ha, con un abbandono sarcastico alla promessa di felicità inscritta persino nella costituzione americana. Ma il contraddittorio col sistema finisce per farlo entrare in collisione con se stesso, perché insomma, in quel porsi contro nella modalità del godere, non s’accorge di portare invece a compimento il diktat segreto del sistema stesso, la cui auto-promessa coincide con quel consumismo del corpo in cui infine Bukowski naufragherà. Così, la sua “rivoluzione” si concretizza soltanto nella demolizione di quel segreto, di quella ipocrisia, arrivando soltanto a far dichiarare al mondo che lo circonda ciò che cerca, ciò che vuole, ciò che fa, invece di fingere di non cercarlo, non volerlo, non farlo. E quanto alla gioia di tale godere, al massimo si compie come gioia autodistruttiva, ove nel godere la vita si affonda nella rinuncia ad affrontarla. In tal modo, il godere diventa un effetto necessario e passivo del già dato, e la personalità singola, come l’intera struttura sociale è intelaiata su tale premessa del corpo senz’anima: il godere è il patire.
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