Unire un paese, una comunità e non occuparla,
predarla, abbandonarla,
in uno spazio di uomini e cose,
felici nel loro tragitto,
non è cosa da tutti.
Tagliarlo senza sosta,
riempiendo le strade di chiacchiere,
in un via vai sempre più frenetico è,
un nuovo modo di essere.
Guardo seduto alla finestra,
uomini che fuggono,
che stanno al comando, come statue senza tempo,
in questo paese dell’antico Salento.
I loro visi, odiati e amati della nostra quotidianità,
sputano parole.
Parole che lasciano il segno,
facendo dimenticare in fretta l’uomo parlante,
i suoi fidi scudieri, le pallide gesta,
il nulla, il grande nulla di cui si onorano.
Gli inganni fatti a viva voce
la fede perduta nel buio,
miraggio della carne,
del sangue, nei sogni,
nelle serate sfrontate d’agosto.
Di guerre raccontate e mai vissute,
sorrisi, abbracci, sedie vuote, noia, musica, candele accese a far numero,
il crepuscolo dell’ ultimo silenzio.
Poi le persone di buona volontà di Galatone,
in silenzio, in umile attesa, operose api.
Dall’ arco,
entrare e guardare sugli annali, o chiedere alle mura,
di queste maschere cosí configurate,
a giorni mandorli fioriti,
a giorni frutti bacati e vuoti.
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