La lunga canzone della fonte - 1 (progetto di poema collettivo? Boh!) | Poesia | Anonimo | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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La lunga canzone della fonte - 1 (progetto di poema collettivo? Boh!)

Chiunque voglia, può aggiungere un suo contributo in versi - non sarebbe bello? -, avendo come unico obbligo il rispetto dell'idea contenuta nel titolo e secondo il proprio modus espressivo, senza tenere in alcun conto il mio (l'alternativa è che continui da solo con gran pena di tutti: riflettete gente, riflettete...)
 
Pies: è una cosa seria, non o stante me.
 
*
Tracima dalla bocca della roccia
da un suo trigemino eroso. Dalla nervatura
cava degli strati dolci dove l’ampolla di basalto
raccoglie le gocce.
E’ il peso del cielo
quando smagrisce la luce. La luce flessa
che squama i suoi bassi aerostati
con la lama del vento sul tagliere del monte
Stanno alti come verghe di vigna
i canneti che la filano. Il pube violato dal giunco
la gamba striminzita, l’intromissione di piedi sconosciuti
il calpestio dei ponti, l’eco della forra. Sciolgono il ritmo
della schiena. Raccoglie le ossa
 
nella corsa il puledro intimo che la porta
 
alla valle distesa
la tranquilla camminata. Liscia. Tenace
s’adagia sul suo piacevole corpo
la ferita trasparente
e l’attraversa l’occhio fino in fondo
dove si posano le anime delle cose cadute
si legano ai sassi, alle astuzie delle anse.
Piangerebbe ai dossi, ai salti verticali
Terrore furioso la vertigine dell’acqua
Le lacrime scompigliano il sole
e una strofa di colori inscrive archi nell’aria umida
o, di contro, scaglia il vetro liquido
per ricomporsi
 
nelle intenzioni del verbo il prisma del sole
 
Per quanto si muova di braccia
le coste nascono sole: una riva
sceglie il profilo del fondo
l’altra la bava perenne degli aghi di luce
- questione opportuna
alle stelle, se ce ne fosse bisogno
Alza le mattine come s’agita un ventaglio
e mi avvolge la notte in un canto disciolto. Decimato
Senza parole
 
Una sua luna mosse le chiome fino in fondo
 
Certe sere, accoglie il vaneggio dei rovi
le beghe dei grilli e la loro religione
passano cicale e formiche plaudenti
suonano le canne e l’organo dei campi
emette un fruscio di voci stridule e cariche di rossi
anche i lombrichi ascoltano i cori del tramonto
e i licheni s’alzano sui ciottoli
come fossero una processione di piccole cose
all’ultimo crocefisso del cosmo
Ma chi mai vedrà più queste invenzioni?
Nemmeno la Natura ci genera
per questa fame
 
Alla somma dei crimini si sottraggono corpi
 
In due vanno a liberarne il seno
il labbro che s’incunea nel bacio
e la lingua dell’allodola che si forma ogni giorno
vogliono la pelle spaesata e fluente
vogliono la vittoria del gioco
sulla ragione suadente. Sottile. Intrigante. Efficiente
Ma in due si muovono i lati delle dighe
In due stringono le viscere
collimano i dorsi: le spalle seccano in un’ora
Dall’una all’altra passa un filo esile, appena
più robusto della pioggia
 
Alle vertebre dei laghi lascia il suo midollo ocra
 
Ha un polmone la fonte
che respira per tutto il percorso
La sua aria di primo pedone, prima figlia
della Terra solitaria prima madre primo ventre
circospetto e prim’attrice in ogni alluvione
le dà il portamento di Dio, onnipotente o assente
in tutti i luoghi dell’uomo, ma non nelle sue abluzioni  
Ha una vena la fonte
da cui la vita offre un balcone
un’affacciata sul mondo minimo, dove altri
microcosmi allineano galassie
con la stessa violenza, con l’identica rabbia
 
Occhi che dal suo occhio osservano le mani
 
occhi che potrebbero ordire una rivoluzione
di molecole
occhi che saprebbero cambiare il suo nettare
nel veleno peggiore
(questo di crederlo e fermare le mani
sarebbe la prima efficace controrivoluzione)
occhi alti nei dormitori dell’acqua
occhi bassi per i rifiuti fecali
occhi fluidi nelle risme di batteri. Spiritati. Implumi
E c’è la perfida idrofobia delle rocce
il caritatevole filtro delle argille
il marsupio del fosso
 
qui decanta la sospensione di tutte le orgie versate.
 
che suoni, risuoni, ruscelli
si trasformi in spumoso fragore di cascata
assordi l'orecchio poco attento
che tenta di coglierne l'essenza,
ch'è bellezza in ogni sua forma
nel suo ristagnare quieta
trasformata in specchio immobile dalla luce
nel suo scendere, scendere sempre
e persino nel non poter mai risalire
la sua impotenza a ricorrere, tornare
liquido pantarèi pieno di dolore
trasceso dall'impetuoso scorrere
 
gonfia della rabbia dei monti che ci dominano silenti.
 
E quando s'accosta al dorso d'un masso,
lo leviga un poco
come se fosse amore quel suo continuo andare.
Rallenta quanto basta per illuderlo
e riparte cantando civettuola verso un altro.
La roccia si vendica aprendosi
e la fonte scompare,
inghiottita in una buia notte di cunicoli carsici.
Sbatte e si frantuma e mugghia di paura
si disperde in mille rivoli che s'aggrappano
come dita alle viscide pareti.
Ah! dov'è la luce, urla, dov'è?
 
Ché lei sa la sua bellezza solo quando il sole l'accarezza
 
che può dirci il randagio di volta
liberato dal raggio canino che azzanna la riva?
La sua orma quadrumane che imbavaglia l’allodola?
Quanti lecci si vedono chini! perdigiorno
le rane che assaltano il guado
senza muovere il tempo rincorrono ore di stasi
e le agguantano magre
C’è la curva dei muti, dove senti piccole carpe
ansimare e uno stuolo di foglie morire.
Ma a che serve la scelta del canto
se nel coro non si sente l’umano?
 
Dov’è che rafforza la voce dell’acqua il silenzio del sale?
 
come quando, passando sulle rive,
mi guardavi con l’acqua dentro le parole
- e’ inutile senza la corrente:
noi siamo ombre ferme,
stagnamo come rane di palude
prive della bellezza che rotola -
e io morivo per la piccola goccia
posata sulla mano aperta
e mi chiedevo se la tua lingua ancora
avrebbe leccato lei
cosi’ fresca e  viva
e senza, senza
queste zampe ormai palmate dalla vita
 
eppure rotolavamo assieme come acque bianche
 
C’eravamo uniti sotto il manto, nell’attesa
rigagnoli abbracciati di freddo, intirizziti del tempo
stelle subalpine ad anelli
 
aspettavamo la venuta
noi aspettavamo un altro gong
all’antimateria
 
I contro: le finitudini pervase d'eterno
 
oh, e poi quando diventa attesa
guardatela, guardatela!
energia, potenziale che s'aggruma
attorno alla limpidezza
pronto ad esplodere a ritrasformarsi in canto
quando il cunicolo riemerge
nella valle stretta, sul fondo dell'orrido.
Tornare, tornare a vivere
ad essere collana di perle traslucide
e spuma bianca,
avere una direzione, un verso
ambire al mare
 
È là che tutto sfocia e trova senso.
 
è l'invidia del sale
la noia della cieca finitudine delle sponde
 
quello che la spinge e muove
o cosa dunque, cosa, e dove?
se lo chiedono il ramo trascinato 
il prato dove tracima e allaga
il viandante assetato 
che l'imprigiona nelle mani a coppa.
ha un sogno innato
forse
un'immaginazione antica
di orizzonti azzurro tesi
 
linee curve e precise come lame
 
stalattiti nei fiumi di freddo
radure di pioppi i giorni pari
le ali lente dei battiti sottozero
i numerosi specchi  i numerosi specchi 
e dominante il vecchio borgo
affresco rosso la sua bocca di petali
pianto acquitrinoso e sabbioso
liquido leggero nei momenti di silenzio
 
mantello mascherato sopra follie di attraversamenti. Cambi cruciali interni
 
lei sfugge alla cupa cappa dello zeitgeist
prendendo un'improvvisa svolta
ci lascia
abbandona lo sguardo che la insegue
 
noi storicizziamo tutto
con l'impazienza del capire
lei scorre e scompare
trasparente rapida e felice
come non saremo mai
non sapremo mai
ah! come vorrei fluire fluire
fluire e basta
 
essere liquida e senza forma
 
All’acqua!, All’acqua! Si gridò
 
Seppure in pochi alle grida, 
si fu ratti come argentee sogliole.
Il guizzo ci prese del frenetico andare
le pinne magistrali rivolte al passato,
proiettammo verso il futuro l’algida tensione
alla ricerca della fonte maestra.
 
Qualora raggiunta avrebbe mai reso
giustizia attesa a cotanto fervore?
 
Eppure tutto portava là, alla fonte 
dove l’inizio ha un senso nonostante
l’acqua alla fine canti diversa canzone.
Le note fluivano come liquido immemore,
Dimentichi coscienti del nostro essere 
cantammo la lunga canzone della vita.
 
Muti come sogliole ci credemmo salmoni.
 
E alla fine arrivammo alla foce.
Ci parve il delta ma fu estuario? Nella confusione
di pinne, dorsi e boccheggiamenti stremati
tre di noi con le rosse guance d’invidia morirono.
Uno solo sopravvisse, avea la pancia gonfia
non sputò nemmeno una lisca, l’infame 
l’indegno pasto lo sostenne fino al traguardo.
 
Fu lì, che in sussulto di indecenza, mentre
con voce stridula intonava la canzone della fonte
il ricordo dello scempio compiuto richiamò
tre lische alla gola e soffocò.
 
Cantò da salmone ma morì sogliola.
 
L’acqua sconcertata non decise la sua parvenza
foce  o delta oppure estuario? 
Nell’indecisione si inabissò nell’arido terreno
che con un singulto lussurioso tutta l’ingoiò.
 
Ripresi il canto interrotto, ma la voce non sortì,
spiaggiai muto come un pesce credendomi usignolo.
 
 
Da quell'acqua
di liquido cielo amo
farmi prendere e lasciare
e poi trascinare
e opporre resistenza
per poi ancora abbandonarmi
in un gioco di vita e di morte.
Entro tra le sue onde
e le onde entrano in me
quasi un rapporto intimo
teso verso un acme
di complice spuma.
 
Come un mio luogo, la fonte è sconosciuta e uguale
 
E nel suo lieve gocciolare
ho mani a conca a trattenere
e dita a fuso a rimestare
E appena tiepida,
la  libero al divenire
torna al suo letto, impetuosa scorre.
Non si volta, mai.
Prosegue un corso,
scavalca, spruzza, spinge
La guardo, è un attimo d'infinito.
Si mescola al tutto
per poi evaporare
 
La ritroverò? Così cerchiamo tra la folla di sponde
 
uomini noti, uomini ampi seduti sul guscio dell’ombra
travaso dove non attende il fiore. Pieghe. E tutti in tono.
Menzogna. Che vada la fonte ben oltre
la faccenda oscura, il fiume di cui il viso unico indizio
si forma diversamente ribaltando la bocca
una metà diversa che non riconoscemmo
e l’altra ancora da inventare.
Così non usiamo le parole giuste
e cade in superficie ciò che sul fondo serbammo
Spingete le braccia dove non è mai l’acqua
dove le spine, le spine sobrie, amano avere un nome
 
Rose  tubularie
bocche di capovolti favi in grani
coraggiose
 
eccola il perché delle correnti
tutto precorre, argentea, individuabile 
chiara lei
tra le sorelle saline, incastonabili
ma lei, la goccia muove
imperdibile giocatrice a scacchi
 
Mossa la torre friabile la sua regina riacquista la nudità dell'aria
 
Randagio
in un rigagnolo allappo
giro furtivo lo sguardo
che non par cosa mia
La fonte privata
 

la fonte stigmata sul costato del monte

 [lasciatemi lasciatemi andare
non mi inchiodate alle vostre parole
: non voglio essere segno
ma purameraviglia che s'effonde]
 

La fonte lima sui muscoli del colle

Vorrei riposarmi un momento
tra i rami dei salici,
sentire sulle membra
le carezze delle chiome
e cullarmi gorgogliando
al canto melodioso dell'usignolo,
ma il vento impetuoso
mi stringe il ventre
e corrode i miei fianchi.
Vorrei riposarmi un momento,
sognare l'amore a primavera
quando il mandorlo in fiore profuma
o d'estate quando il sole con ardore
ogni sospiro e desiderio brucia,
ma il gelo dell'inverno
mi trascina già
giù per la china.
 
fra muschi di color mela
agito me, in tentazione di morsi
spacca il suono secco e si trasforma in succo
s'allontana e torna a lucidare i marmi
 

è freddo e lo potrei urlare

a questa acqua che cola
e quante le parole che urleremmo al vento
se solo noi poeti della domenica
cantassimo anche il lunedì
che vi credete? che possa bastare al dolore
una riva nuda?
resta tutto lì compresso sotto
sotto il diaframma, il male
 
e che interessa ai pesci la nostra vaga camminata di provincia?
 
Militi spostati nel fianco a tirare su la riva,
fuori di via il vento li tira,
e colano in vasi di piani, sigma di facies sullo sfondo.
 
Grazia che nel cuore della verginità
il tempo mena.
 
Non sono temibili al vento
le canute malinconie
munte dal ventre del Reso,
divina speme che in core assale
 e che dei canti non chiede risalita.
 
Accovacciati questi ratti ombrosi,
nel mezzo d'un tram tram di sponde
li senti in gospel accavallati
metter punti e pomelli, spire,
fiamme buttate al delta di ormeggi vitrei.
 
Cantava Inverno l’altro giorno
dalle finestre della scuola
i respiri dei bambini
la conta dei numeri
 
All’improvviso un merlo sui rami del nocciolo
a frullar la neve
e il bianco e il suo calore
 
Vorrei fermarlo e tenerlo fra le mani
Ma un battito di ciglia
Ed è volato via
 
 
ed è sull'acqua il merlo
giallo becco che si protende
lui
che dovrebbe avere paura
per la sua anima idrosolubile
animuccia pavida palpitante
che attende ristoro
 
poi un fremito di piume
un baluginio di nero
ed è di nuovo assenza e flusso
 
Gocce spinte ai sette/otto rotolii di pietre che annunciano
le dita tronche del pendio a gradi. Tornio
che affina il fusto. Ha un vaso la goccia che esplode
in epoche prossime. Vicine. Accadono ora.
Versa la sua storia dalle schegge in volo. Parabole
disuguali. Subitanee lentiggini dell’onda
Sul tronco del fiume la chiusa mostra l’ascia
scalina la corteccia liquida dell’alveo, cambia gl’invasi
Ristruttura le caviglie alle cavane. Le poggia
sulle sua schiena. Ne comprende i pesi
Sembrano curve lepri le feritoie umide
gambe di antica puttana le palafitte
un cielo di paglie scorre riflesso
e volano barbi dal nido del merlo
 
La fonte ha raggiunto un corpo gigante e s'insinua amante alla piana 
 
una linea d'acqua ci attraversa
 
con mille lame di luna calante
obnubilava marina
e bella
 
ora lambicca dagli occhi
 
|bisogna dare alle cose la forma che vogliamo
guardare i nostri anni all'incontrario|
 
ma si fa tardi
 
lasciamo che 
a goccia a goccia 
cada nel verso che allunga la terra
 
Il doppio, sul ripasso. Congruo concedere l'affondo
al dolorante fulcro della sera
 
Paiono di landa i suoli, ma
gli abbagliamenti, le ossessioni sotto
ritrosie domate
oggi, l'uncino all' indomani
così tutto è sole all’occhio del presente
suono d'acque l'esondio di scorie
 
Là, sotto la superfice  le sere, perfida la luna
fosche invece s’attraccano alle cime
là l’inconsulto sonno tragico
dorme
 
l’accompagna Ermione
 
 
Ovunque sia il riposo, il travaglio succinto. Rapido. Caduta
 
terra che si fa lucida e s'impasta
argilla per creare
 
è notte e non vedo le mie mani
 
conosceremo domani il profilo del vaso
se avremo occhi e cuore
 
e in fine il bacio sulle mani del fondo dove si sente
 
Amore, che ha giunchiglie pendenti dai capelli. Lunghi, come i meandri nell'ansa del tuo fiume. S'increspa l'acqua che mi chiama e con essa l'alba. Letargo che non scivola.
 
Fuori l'ombra per prima poi il torsolo del giorno. Sputato dal sole. Obeso
 
E piano si smorza il vento
s'allarga un'ansa ai lati, scava
 
E' ammollo  il piede, freddo svirgola ai ciotoli
e nell'unico solco d'un ricordo
poggia pianta alle radici
 
terrà fede alle correnti
 
e la ruota ripeschera' al mulino l'attimo sospeso 
nel fragore del vuoto suono 
scale d'acqua in musica
 
adesso sediamoci, che il viaggio è stato lungo
 
C'è un altro masso che ci aspetta
ci accoglierà nella sua durezza muschiosa
nella sua natura ferma
così stabile a confronto dello scorrere
così semplice
                    che il cuore sperimenta una sosta
 
Fatale all'oceano la mappa intromessa dalla foce
ovunque si vede la sua carnagione
sollevata. Discussa. Liberata
nel luogo dove prende la rincorsa
 
raggiungere la foce, ora
allungare le dita sul seno bruno della terra
che sospira e s'inarca
                a spingermi verso l'esito
infinito scioglimento nell'azzurro
 
Stanca, troppo stanca
d'esser strappata dal suo caldo letto
gridava:
" Alla fonte tornare devo
non voglio perdermi tra anse e anfratti.
Alla fonte, là
giaciono sul fondo
lacrime di luna,
col bicchiere di smeraldo
raccoglierle potrei
berne una ad una così
la mia sete di sapere spegnerei.
Quelle che rimarranno
le getterei e di prisma di luce
brillerà la mia scia."
 
E poi, il pensier mio, e' ciò che acclama il vento, eco dell'acqua che vi scorre. Una lungimiranza, un senso senza sosta. Che ne diremo del domani, se interrotto o greve e' qui quest'oggi? Acclami te e ti dipingi, nelle sfuocate cose che pur dal tuo linguaggio escono e ai sensi corrono. Ecco, sostiamo, e pur se grigio e' il cielo, rimarrà memoria di ciò che fummo e mai non divenimmo.
Ma il naufragar c'è dolce in questo fiume.
 
L'arroganza della discesa
taglieggia la nuda passione
che non dura eterna. Parrebbe
un licheno insonne, questo sì, il cuore
Non avrebbe più senso l’anagrafe geografica
non ne avrebbe l’atto di registrazione e la riconoscenza
dei vecchi salvi dai paludamenti
né un travaglio alla soglia del bacio
steso sul muro della donna
come intonaco alla polvere. Crepa. Ustione
Umidore dai pori. Evanescenza.
Dentro i pori: macchie. Fumi. Dalla pelle, l'argilla
- un rabbuffo che cola, come si dice qui
 
i miei capelli fluidi sono atomi
di veglie e stringhe di albe
ma persiste nella calvizie dei sassi la caviglia
delle solitudini abbattute
 
sulla pietra
con le spalle scavate dai passi di chi mi superò
nell’evidente buco sotto il mento
scava la negligenza del vuoto, il dimenare malaccorto
 
Da quel foro l’aquila dell’ira vive
e vegeta. Porta in alto la furia del dirupo
e mi lascia cadere nel suo abbeveratoio
 
Di pochi mi tocca una memoria
ed ancor meno la morte
 
dice chi smette di affacciarsi nei miei occhi.
 
Furie, di noccioli sottovento
terra troppo grassa, la pianura
il fiume scava
 
porta
risa di bimbi
nella mano, alta
geovariabilità
fin dove arriva
 
Salirà, che noi si sappia quali volute l’aspirano
o quali inghippi di fiati
la sospingono
salirà la fonte verticale sui suoi glutei
funambolici. Saltimbanca sublime e pura.
O ricadrebbe se sentisse una pesantezza
non farsi risa e gioco. Aggiungere tensione
al canapo che la tira in nube
sottrarsi al peso che la gravita in basso
I piedi acustici della foce ben serrati a riva
le rotule tornite al sole. Sottili. Lucenti.
 
L’acqua che s’inebria d’aria è la geisha perfetta
la donna muta che ti mostra la sua arte con pazienza di narici.
 
ah, no, non geisha, mi sbaglio
: lei non ha faccia dipinta di biacca
piedi piccoli stretti storpiati
 
ma il passo ampio e libero e gesti come luce
m'accoglie nel suo seno
come una balia un poppante avido
m'annega nelle sue carni 
 
vivida e sfuggente. ride e m'incanta.
 
m’incanta di due parti sorgenti l’intero
la goccia instillata nel dubbio le ocre gettate
a mani nude sul mare.
di ogni piccola morte di fonte la tecnica zen
del respiro. del fango che segue m’incantano
gli angeli
con il badile e il calore notturno di sponda
se fai l’amore col mondo. magari da fenicottero rosa
eternamente
in posa su di una gamba sola. e l’acqua
paziente in attesa di tali minime divagazioni.
mi adombra
più forte la pena che attiene agli occhi
alla bocca di chi osserva stupito la concitazione focale
dei giorni
di renne di strenne. portando nel petto
un’unica fonte di stella segreta al profumo di sandalo
e cedro.
una virale parola di marketing e tiara.
e allora con i piedi nell’acqua sgrano nel piatto i piselli
mi associo
al rito obbligato mi adorno di altri inutili orpelli.
di isole nuove e di nuove lagune. di selvagge colline
che nel ventre sotteso
mantengono le vibrazioni più azzurre del mare.
con la faccia inebriata a percuotere invano la roccia
per estrarre
l’ultima stilla di pace il suo becco adunco di luce.
e un cielo qualunque disposto a chinarsi sul nostro
disadorno dolore.
assumo a strapiombo la linea perfetta
del punto più azzurro di fuga per schiacciare la testa
di serpe
ribelle che mi sbuca dal seno. con tacco dodici al cubo.
con l’acqua di stiva che mi mozza il respiro.
in plenitudine cordis
azzardo lo sguardo blu di Mirò che sfronda
le ombre da ogni eccesso di zelo
e penetra
l’ansa segreta di questa canzone di fonte
che si attorciglia nel carminio più acceso
si sgretola
in lava fumante accoglie visioni e invasioni
fino all’acronica fine di tale fenica
fabulazione.
oltre ogni impossibile dove.
  
Perché mostrare la coda infantile della chioma d'idrogeno? 
 
provoca ogni altro elemento, trascina la spuma d'ossigeno
all’intromissione decisa nella conca la caverna.
 
La terra respira
Si muove sul suo corpo astuto. Orizzontale fallito, la sfera si mostra
all'errore di cui la fonte non tiene conto. Non serve
Va per logica al ritrovamento del luogo
va all’espansione. La dieresi del suono muta il fondo
in solco e la lunga discesa specchia
tutto il cielo possibile dai diversi orli. Si affacciano
con rapide torsioni le volpi - chissà quale grande caccia
ancora non le sfiora -, ruotano anatre sullo stesso
acquitrinio della zanzara, e non c’è scontro.
La fonte minima che nacque già donna
ha in dote curve barocche alle cosce.
L’uomo che la corteggia è il bosco. Il suo basso ventre
agisce sotterraneo e vitale. La sfinisce
La beve, ignorato e letale.    
 
scintilla di pelle di capra di fiume esultante
il gorgo amoroso impaziente
scintilla alla sposa raggiante decorata d'henné.
induce sinapsi tra oriente e occidente
la bianca distesa piangente che il sole d'inverno
inatteso percuote improvviso.
quasi diastolico il canto si volge
alle voci affluite di bassa marea
si volge alla gabbianella ferita che muore sul pelo
di uno scudo guerriero di foce. temprata d'eterno scontento
e d'inumana ferocia.
 
 
Come può il crogiuolo dell’acqua sparigliare ogni volo?
 
Disgiunte rese le ali, olfattiva la conta
La rosa del vento si pone nel rovo dell’onda
e la punge aspramente. Che ne sa il cormorano
delle sue proporzioni? Affonda che sembra un dovere
la sua ignorata crocefissione. E’ il cristo palmato
che si abbatte sul golgota dello scoglio. E’ la rabbia
di un occhio che chiude i battenti dell’alba
e riapre la notte. La divora. Si sfama di tutta la luce
che può. La prende dal cuore dell’aria e la squama
nell’abisso del mare per tutti i pesci che non videro il sole.
 
la fonte la fonte è soltanto il prestanome di mia madre
e la sua assoluzione.
 
mio padre la falesia di arenaria, il dirupo, l’imbuto
Diede alla goccia la parvenza del flusso.
Così scorro trascinando il residuo di quel seme
assente l’ombra
senza perché l’evanescenza
nemmeno mai  poterne riconoscere il ritorno.
L’acqua vive dove muore
e non passa con il suo paludamento funerario
semplicemente si discosta, s’annuvola e tergiversa
ma resta obliqua al grembo
e la cercammo, volendola, per altro cosmo
 
o per lo stesso che con loro frequentammo.
 
 
 [io volevo vivere, vivere, vivere
trasudare dalle pietre e scavarle
disegnarmi un letto in cui scorrere
gorgogliare tra i massi
cantare
e cantando crescere. gonfiarmi.
 
una piena di parole riflettenti
parole specchio
liquide parole trasparenti]
 
di sete fonte  fatta m'abbevero
 
crismi non compatti siamo
perchè in ogni goccia che rotola
nel principio  ci formiamo
e poi mentre rotola a valle il fato
 noi lo raggiungiamo.
si siamo vene spezzate
che nell'orizzonte giacciono,
cicatrici che tra zampilli e quiete
vivono stillando amore o odio nel percorso
 
Chi riuscì a potare l'acqua
fu la diga - la cesoia enorme dell’invaso o del fosso -
che tagliò il fusto col suo morso di cemento
Il solo fuscello della corrente, diede alle stanze
luce caldo e musica dai dischi
ah i dischi!, i dischi col loro vortice nero
di strumenti e voci e gracchiare come di rane
elettriche. Spazientite. Rivoluzionarie.
Nessuno incise la fonte ed ancor meno la canta.
 
La sua voce strilla alle rapide dove le vede.
 
 [io non fuggo, non resto
: scorro.  è nell'andare la mia intima essenza.
la tua, guardarmi,
ché contenermi è impossibile.]
 
 
c'è in lei lo splendore delle perse cose
le cose che vanno, non si voltano
tornano sublimate e irriconoscibili
nuove ed eterne
a dissetare bocche riarse
senza chiedere niente pretendere niente
 
canto primordiale che ci culla
essenza d'amore che si rinnova
 
io son ragion di vento
nel mio letto
 vorrei giacere
 dimenticandomi
del trascorrere,
ma  gocce impazzite
s'aggrappano alle sponde
e inzuppano le zolle.
cosi sovvien
che tracima il mio essere
sullo scosceso prato a
sollevar dalla cuna
quell'apolide seme

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