Scritto da © Fausto Raso - Mer, 06/07/2011 - 18:41
La moglie che uccide il marito si può definire “uxoricida”, posto che il termine, di provenienza latina, alla lettera significa “uccisore della moglie”? La domanda ci è stata posta da un nostro carissimo amico dopo aver letto, su un giornale locale, che “subito dopo aver confessato la brutale uccisione del marito, l’uxoricida è stata condotta in Questura per le prime interrogazioni di rito”. Il nostro amico ha visto la pagliuzza e non la trave. E ci spieghiamo. Uxoricida (o ussoricida) non fa una piega dal punto di vista linguistico; la fa, invece, interrogazioni in luogo di interrogatorii (qualche pseudolinguista strabuzzerà gli occhi davanti a quelle due “i”, ma la legge grammaticale stabilisce che i sostantivi in “orio” nella forma plurale prendono la doppia “i”: dormitorio, dormitorii; oratorio, oratorii; interrogatorio…. interrogatorii).
Ma andiamo con ordine. Per quanto riguarda uxoricida – forma perfettissima, ripetiamo – la risposta la danno le sapienti note del linguista Leo Pestelli. “Ussoricidio, che vuol dire l’uccisione della moglie, come si può applicare a donna? È un fatto che la nostra lingua, a tutto, proprio a tutto, non ha pensato. Si dà il caso che una povera donna ammazzi suo marito e non abbia una voce; né meglio di lei stanno il padre e la madre che uccidano il figlio adulto: la lingua ha un istinto morale: aborre da certe idee e fa loro mancare le parole. Ma almeno per la moglie, che uccide spessino, ci si è dovuti aggiustare, ed ecco quel latinismo pigliare nell’uso il senso lato di uccisione del consorte, buono quindi per tutti e due. Del resto come si dice ‘l’amore dello zio’, che può essere tanto quello che lo zio sente per i nipoti quanto quello che i nipoti sentono per lo zio, così l’ ‘uccisione della moglie’ può essere presa dal grammatico in senso sia oggettivo sia soggettivo, lasciandosi ai giornalisti di appurare da che parte è scappato il morto”.
È lo stesso caso, amico, di parricida, che alla lettera vale “uccisore del proprio padre” ma, per estensione, si può adoperare anche per indicare l’ “uccisore di un parente stretto”. Un padre che uccide il proprio figlio, dunque, si può benissimo definire un “parricida” senza suscitare alcuno ‘scandalo linguistico’.
E veniamo alla trave non rilevata dal nostro gentile amico, vale a dire a interrogazione che è cosa diversa da interrogatorio sebbene tutti e due i termini abbiano la medesima origine essendo dei “deverbali”, cioè dei sostantivi derivati da un verbo, nella fattispecie il verbo latino “interrogare”, composto del prefisso “inter” ( ‘fra’ ) e “rogare” (chiedere, ‘chiedere fra due o più persone’, quindi).
Da questo verbo, dicevamo, sono nati i sostantivi interrogatorio e interrogazione ma con “usi linguistici” nettamente distinti (anche se alcuni glottologi ritengono i due termini sinonimi l’uno dell’altro e, quindi, “interscambiabili”). Il primo, dunque, si adopera nel linguaggio giuridico e, come recitano i vocabolari, indica una “serie di domande rivolte dal giudice ai testimoni, dalla polizia a persone sospette di un reato, ecc., e, per estensione, qualsiasi interrogazione fatta con tono inquisitorio”. Il secondo termine, cioè l’interrogazione, si adopera, per lo più, nel linguaggio politico e scolastico. Nel primo caso indica una richiesta di informazioni o chiarimenti sull’attività della pubblica amministrazione, costituita, generalmente da una semplice domanda rivolta dai componenti del Parlamento al governo (interrogazione parlamentare); oppure dai membri dei consigli regionali, provinciali o comunali alla giunta (interrogazione consiliare). Nel secondo caso si tratta di una serie di domande con cui l’insegnante – durante il corso dell’anno o agli esami – accerta il grado di preparazione del discente. In altre parole indica il “colloquio” che si svolge tra docente e allievo. L’interrogatorio della polizia non si può certo definire un “colloquio” presupponendo un certo grado di… ‘inquisizione’. Per questo motivo, cortese amico, dissentiamo totalmente dai linguisti che ritengono i due vocaboli, oggetto delle nostre modeste noterelle, “interscambiabili”. E il cronista del giornale locale avrebbe dovuto scrivere, correttamente, “interrogatorii” e non “interrogazioni”. Ma tant’è.
Fausto Raso
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