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blog di giuseppe diodati

Gli scomunicati della danza delle tarantole

I fuochi erano alti
le botti splillavano vino
le donne, dalle lunghe gonne
sollevavano i lembi per danzare.
Le bocche erano mature per i baci,
mentre Santa Madre Chiesa
guardava altrove;
le donne, dalle lunghe gonne
danzavano e il loro sudore
era desiderio antico.
Rosolava il vitello grasso
sul ceppo,
il figlio era tornato
e suo padre lo aveva perdonato.
Le donne dalle lunghe gonne
sfrenavano i desideri
dei guerrieri dai turbanti saraceni.
Scomunicati dalla chiesa d'occidente
chiedevano perdono,
ma le gambe nude
inducevano in nuovi peccati
e minori pentimenti.
Fu allora,
che il figlio tornato
mostrò suo figlio appena nato
e la musica cessò.
Le donne, dalle lunghe gonne
abbassarono i lembi
e coprirono le gambe
e qualcuna rimise le tette
da dove erano venute.
"E' mio figlio"
gridò il giovane
davanti al lauto pranzo
e suo padre
rinnegò la fede,
mentre Santa Romana Chiesa
benedisse un'altra crociata
per non ammettere d'aver sbagliato.

Delle sante vergini collassate sul mercato delle indulgenze

Ero seduto
sulla pietra del XIII miglio
della via del sale.
Leggevo di Zaratustra
con uno stuzzicandenti
come segnalibro,
quando passò una donna
procace e senza
un indumento
che non oso nominare,
mutande.
Vendeva il suo corpo ai militari
per far del bene,
mi disse,
per piacere,
mi confessò,
ma son vergine diceva
e santa.
Le chiesi allora
la ragione,
passando il capitolo
del Dio morto
e lei sorridendo mi rispose,
che un vescovo
le aveva venduta
l'indulgenza.
Mi offrì il piacere
senza pagare,
ma rifiutai
provocandole delusione.
Guardammo passare
da quelle parti
comari presuntuose,
ciarlavano di poesia
e di emozioni,
lei mostrò loro Neruda
sulla chiappa destra
e ruttammo su quelle donne
la nostra irritazione.
Collassammo
allora
insieme
che il sole era al tramonto
collassammo
sotto un cielo di piombo fuso
che colava pioggia
sulla nostra
eterna delusione.

Moscerini

Moscerini che danzano
sul vetro del parabrezza
di una macchina sportiva,
blaterano di qualunquismo
si parlano di poesia.

Poesia? Che vuoi che sia poesia?
Mentre sorseggi il tuo aperitivo
misto a coca
con la tua tuta sportiva.

Poesia?
La poesia vera
è una puttana nigeriana
a cosce larghe sull’Appia Antica
che pensa ai colori a cera di suo figlio
e alla recita dell’Ave Maria.

Poeti?
Dove? Quando?
Stanno con gli operai rumeni
sulla grande impalcatura
senza cinghie, ma solo sigarette
nella bocca e senza filtro.

Piccola borghese,
con uno yogurt senza grassi
sulle ginocchia,
cosa ne sai dei poeti?

Meriteresti di rammendar calzini
sotto il palco di santa ghigliottina
 di finire davanti al plotone della rivoluzione
a Parigi
nel ’71
quando i comunardi
rovesciavano i preti
dai loro troni.

Invece eccoti qui
a parlare di poeti
a giudicare
alla qualunquistica centuria
del tuo parco a fiori
nel tuo imbarazzante attico
davanti al parco delle mule gravide.
Moscerini
che blaterano
che si credono indovine
che spettegolando
sul vetro della macchina sportiva
si credono farfalle
ma presto le spazzerà via
il doloroso incubo
di pelle scorticata
da un’emozione vera.

Stelle contadine

Hai visto figlio
hai visto le stelle contadine?
Sotto le nostre strade
hanno più polvere
che tetti rossi.

Sai figlio, io ero
un bambino come te
e mio padre
aveva occhi gravidi
che partorivan lacrime.

Eran lacrime grigie
ed umide di palude
e le zanzare a mescere
sui tini al gocciolio
del Montepulciano.

Tua madre figlio,
tua madre saliva sul carro
delle cavallette
era bella come la nostra terra
bella come l’erba
e i ruscelli di montagna.

Guarda le stelle contadine figlio
la terza la regalai a tua madre
guarda bene
si la terza da venere a contare
la terza.

Ora vai figlio
è ora
è questo il tempo
il tempo d’andare
la terza per tua madre
e lei scelse per  te
la più luminosa
allora, quando nascesti,
l’autunno dalle mute foglie.

Conigli ebbri al parco di Monza

 
Il vino era buono
e lei aveva ricci capelli
conigli ebbri al parco di Monza.
 
Dodici lune
una per ogni notte
di quella notte.
 
Stivaletti con il tacco
i tuoi jeans attillati
biciclette e martiri
e sguardi invadenti.
 
Dodici lune
una per ogni desiderio
di quella notte.
 
E i conigli
i conigli ebbri
a guardarci
senza contare gli anni
senza contare gli anni.
 
Il vino era buono
come il tuo navigatore
come i tuoi occhi
in quella follia
il parco di Monza
scoppiava le dodici lune
tutte
una per ogni notte
una per ogni anno perduto
al parco di Monza
al parco di Monza.

Lo sguardo di NIma

Sul ponte del mare
ho raccolto lo sguardo di Nima,
mentre il sole
rifletteva cavi d’acciaio nei suoi occhi.

Onde marroni
trascinavano relitti
alla foce del fiume.

Barche di pescatori
ondeggiavano irriverenti,
mentre Nima
con la mano seguiva
neri uccelli stranieri.

I suoi occhi mi parlavano
di dolore,
sul ponte del mare
Nima tremava.

Pescara è una città
che capisce gli sguardi,
ha ancora echi
di giorni di guerra
tra le sue fondamenta di sabbia.

Pescara conosce Nima
e forse l’ama,
ma lei guarda i relitti
che il fiume trascina
e pensa a sua madre.

Non volare Nima,
non volare,
guarda i miei occhi
e il pugno contro il cielo
che lancio
per  rompere il cristallo
del tuo dolore.

C'è luce nella casa di Lazzaro

C'è luce nella casa di Lazzaro
uno spiraglio sottile
dalla porta semi aperta.
Odore di morte
e profumo di sugo
mischiato come accade
quando le candele
bruciano le menzogne.
Dove è tua moglie Lazzaro?
E' andata oltre il Giordano
con un carro armato Israeliano
e due valige con lo spago.
C'è luce nella casa di Lazzaro,
sua moglie ha lasciato la porta semiaperta
e nessuno sa dove sia andata
nessuno.
E c'è una musica che esce
dal suo appartamento
una musica che spacca
che cade
con una voce di bambina
che canta una ninna nanna.

Piccioni macchiati di nero sulla cupola della sinagoga

Andavo a vestire le mosche
quando marinavo la scuola,
per te Sara
dai capezzoli di seta
e le labbra oddolcite col miele.
Non ho mai capito
la ragione di un popolo eletto,
nemmeno le persecuzioni
delle sere d'inverno
con le camicie nere
dalle mutande strette.
I piccioni sulla cupola
rincorrevano dolori,
su quella stella di Davide
un destino d'estate romana.
Un violoncello Sara,
un violoncello della signora
con la veste nera
davanti al portone,
con i poliziotti mascherati di fard
che pulivano gli occhiali.
Erano macchiati di nero
i piccioni Sara,
di nero,
forse per uno strano ricordo,
forse perchè questo amore
doveva finire così,
guardando i piccioni
macchiati di nero
sulla cupola della Sinagoga,
quando andavo a vestire le mosche
d'adoloscente indovino
a Roma
raccogliendo semi di papavero rosso.

Sotto l'ulivo una freccia

Era sotto l’ulivo la freccia
la freccia dello sceriffo di Nottingham.
Era sotto l’ulivo la tua bocca
il giorno della mia ultima paura.

Portami il ricordo
portami il ricordo vento
che di lei
non ho alcuna liquida figura.

Era sotto l’ulivo la freccia
dello sceriffo di Nottingham
e io ti chiamavo lady Marion
e tu mi parlavi di Sartre.

Non bastava la tosse
a farti smettere di fumare
quelle notti all’Avana
quando il Che raccontava le lune.

Era sotto l’uliva la freccia
Simone e tu sputavi
i deliri con una nota di Jazz
e non sapevi che ero
perso di te.

Sotto l’ulivo una freccia
Simone de Beauvoir
e tu a parlarmi di Sartre
e io a chiamarti Marion
per la mia incredibile
assurda voglia di te.

Di punta e di taglio

Di punta e di taglio
io
ti voglio colpire.

Mostrami donna
dove nascondi il tuo tesoro
mostrami dove
ora?

Di punta e di taglio
chi sputa
morirà per mia mano
e Gerico
ha sacchi di sale.

Avvolgo su di te donna
il mio sguardo
di piombo

avvolgo a te
che hai dimenticato
i giorni del volo.

Di punta
si
come un fioretto
di taglio
si come una spada
perchè alla fine
pronuncerò il mio nome.

Sabbia sugli occhi
freddo sulle mani
io sono
l'ultimo della mia razza
ma solo alla fine pronuncerò
il mio nome.

D'amore e di morte
di freddo e d'astuzia
colpisco nei vicoli
o nella luce
del giorno
io sono
quello che sono.

Ho perso le ali
perchè ho amato
una donna mortale
ho perso le ali
ma non la mia rabbia.

Di punta e di taglio
donna
guarda i miei occhi
e ricorda il mio nome
il mio nome
Gabriele.

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