Scritto da © ande - Ven, 05/03/2010 - 23:25
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Mostra fotografica
“Vivere ancora – noch mal leben” Dal 27 febbraio al 1 aprile 2010 Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano |
La fotografia come strumento per raccontare la rassegnazione, il dolore, la paura, la serenità, e infine l'abbandono alla morte. Sentimenti appena accennati sui visi delle persone che hanno accettato di farsi ritrarre prima e dopo la loro scomparsa. La Libera Università di Bolzano ospita in esclusiva nazionale dal 26 febbraio al 1 aprile, “Vivere ancora – noch mal leben”, una particolare mostra fotografica di ritratti realizzati da Walter Schels con la collaborazione di Beate Lakotta giornalista autrice delle biografie a corredo dei volti di persone ricoverate negli hospices della Germania, residenze sanitarie per malati terminali. Grazie all'interessamento dell'Associazione “Il Papavero”costituitasi a Bolzano nel 2008 per dedicarsi alla diffusione delle cure palliative ed alla realizzazione nella città di un hospice per malati terminali, e alla collaborazione della Facoltà di Design e Arti, questa mostra arriva in Italia dopo essere stata vista da 70mila visitatori a Londra, e aver toccato città come Berlino, Lisbona, Vienna, Tokio, Tel Aviv, Innsbruck e in Germania. Gli autori hanno vissuto per oltre un anno negli hospice del Nord della Germania ed hanno ritratto 24 persone, di età compresa tra i 17 mesi e gli 83 anni, pochi giorni prima e dopo la loro morte. Ogni coppia di ritratti in bianco-nero, di grande formato, viene accompagnata dai dati biografici delle persone e da testimonianze su come hanno vissuto gli ultimi giorni di vita. Sono immagini di grande dolore ma anche di straordinaria umanità e sensibilità, attraverso di esse gli autori, con estrema delicatezza, hanno affrontato un tema particolarmente delicato, il confine tra la vita e la morte, trattato con il massimo rispetto per la dignità delle persone davanti alla macchina fotografica. Il progetto particolarmente difficile è stato possibile, da un lato grazie alla disponibilità di persone al termine della loro vita, dall'altro dal personale coinvolgimento degli autori. I ritratti mostrano una particolare attenzione per l'approccio e la pietà verso i malati terminali, rincuorando confortandoli con amore e tenerezza i loro parenti.“Non temo la morte. Quel che mi spaventa è morire”, in questa coinvolgente frase di Klara Behrens, una dei 24 protagonisti della mostra “Vivere ancora – noch mal leben”, è racchiuso il senso dell’indagine realizzata. L'associazione “Il Papavero” attraverso questa esposizione fotografica, i dibattiti, le conferenze e gli eventi collaterali, intende sollecitare un movimento di idee che crei le basi per la realizzazione di una struttura sanitaria dedicata ai malati terminali, e allo stesso tempo promuovere la diffusione di un pensiero collettivo grazie al quale questo difficile tema sopisca i timori che ognuno di noi prova riguardo l'ultima fase dell'esistenza. È difficile che qualcosa possa colpire le persone più dell'incontro con la morte. Nella nostra società la morte e l'esperienza del morire estraniati dalla vita famigliare e quotidiana sono diventati un tabù difficilmente superabile. Nel mondo occidentale la sofferenza e la morte sono divenute sconvenienti, fuori luogo, fonte di angoscia. La mostra aiuta a riflettere sul mistero rappresentato da una vita unica ed irripetibile che finisce, ma nella quale una relazione è ancora possibile, anche quando fragilità e debolezza hanno il sopravvento. Solo così la vicinanza al morente consente, a chi sopravvive al distacco, di recuperare il senso di una vita che si conclude e di attribuire un significato al ricordo di chi non c’è più, ma che rimarrà per sempre. Gli autori spiegano così le loro intenzioni alla base del progetto realizzato: “Volevamo seguire le persone nell'ultimo periodo della loro vita per apprendere da loro alcune sensazioni sull'accommiatarsi e sulla morte. Una volta era quasi inevitabile vedere sin da piccoli i propri cari in famiglia nell'istante della loro fine della vita, o deceduti. Si moriva in casa. Oggi si cerca di evitare la vista del dolore e della morte. Si muore con più discrezione. La nostra conoscenza al riguardo è divenuta più generica, e forse è per questo che ne abbiamo perfino più paura di una volta. È nato in noi il desiderio di un'idea più precisa di questo processo che ci coinvolge tutti. Nella nostra vita nulla ci scuote con così vigore come l'incontro con la morte. Anche altrove si muore ma nell'hospice avviene spesso in modo inaspettato, quasi per caso. Al contrario, sono luoghi di vita per persone in fin di vita, dove, grazie al progresso della medicina moderna, essi possono trascorrere i loro ultimi giorni nel modo più consapevole possibile e privi di sofferenza. Chi viene qui sa che non tornerà più nella propria casa, che deve congedarsi e presto la sua vita giungerà al termine”. Massimo Bernardo è il medico responsabile del reparto Cure Palliative all’Ospedale di Bolzano e conosce bene la sofferenza che provano i malati terminali e i loro famigliari. “A tutti è capitato di confrontarsi nella vita con un amico o un parente gravemente malato che giace in un letto d’ospedale dove tutti si danno da fare con efficienza per lottare contro la malattia. Ma chi si avvicina alla fase ultima della vita, chi si confronta con una guarigione non più possibile, chi percepisce che il tempo rimasto è limitato e quindi prezioso, che risposte ottiene? Questo è il momento in cui l’attenzione deve tornare dalla malattia alla persona, che ha il diritto di essere accompagnata con umanità e nel rispetto della sua dignità e libertà. Da tempo in Europa si sono diffuse le cure palliative, che nascono dalla necessità di stare accanto ai malati inguaribili ed alle loro famiglie in un momento in cui il dolore, nelle sue diverse componenti fisica, psicologica, sociale e spirituale, richiede risposte rapide ed adeguate. L’obiettivo è quello di restituire ai malati ed ai loro familiari la possibilità di vivere nel miglior modo possibile, avendo prima di tutto la certezza di non essere lasciati soli in un momento così difficile”. Heiner Schmitz, Edelgard Clavey, Klara Behrens, Michael Föge, Roswitha Pacholleck, Heiner Schmitz, sono alcuni dei protagonisti che hanno voluto donare il loro ritratto a tutti coloro vorranno sostenere la diffusione delle cure palliative.
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Intervista a Walter Schels |
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Una mostra fotografica in escluiva nazionale presso la Libera Università di Bolzano in via Sernesi 1, dal titolo “Vivere ancora -noch mal leben” esposta fino al 1 aprile. Sono ritratti realizzati da Walter Schels e da sua moglie Beate Lakotta giornalista, autrice delle biografie a corredo dei volti di persone ricoverate negli hospices della Germania. L'iniziativa è dell'Associazione “Il Papavero” di Bolzano che si dedica alla diffusione delle cure palliative ed alla realizzazione di un hospice per malati terminali, in collaborazione alla Facoltà di Design e Arti. Gli autori hanno trascorso un anno negli hospice della Germania ed hanno ritratto 24 persone, di età compresa tra i 17 mesi e gli 83 anni. Ogni coppia di ritratti in bianco-nero è corredata dalla biografia delle persone e da testimonianze su come hanno vissuto gli ultimi giorni di vita. Sono immagini di grande dolore ma anche di straordinaria umanità, attraverso di esse gli autori, con estrema delicatezza, hanno affrontato un tema particolarmente delicato, il confine tra la vita e la morte, trattato con il massimo rispetto per la dignità delle persone davanti alla macchina fotografica. Abbiamo intervistato l'autore.
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Come è nata in lei l'idea di realizzare queste fotografie?
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“Sono abbastanza vecchio da poter pensare alla morte e la mia compagna è abbastanza giovane da pensarci. Lei è una redattrice della rivista Der Spiegel dove si occupa di psicologia, di malattie e del tema della morte. Io come fotografo mi sono interessato di questi settori che sono al limite. Per 15 anni ho fotografato le nascite di tanti bambini per la rivista Eltern, e ho potuto osservare come i visi dei neonati sembravano quelli di persone anziane. Notava quanta sofferenza c'era sui loro visi. Un'esperienza che mi ha coinvolto a tal punto da occuparmi di volti e farne dei ritratti. Il primo momento della nascita io l'ho vissuto con paura e terrore. Una persona che non muore per un incidente ma per morte naturale ha il viso più rilassato e sereno, l'esatto opposto di un viso al momento della nascita. Ho voluto quindi confrontarmi con le mie paure della morte, di vedere una persona deceduta. Immaginare una persona morta era un'idea insopportabile per me”.
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Come è riuscito allora a superare questa particolare esperienza a contatto con malati terminali?
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“Io da solo non ci sarei mai riuscito. È grazie alla presenza di mia moglie che collaborava al progetto se ho potuto ricevere un sostegno e darlo a lei in maniera reciproca”.
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Quale eredità le resta dopo aver condiviso insieme la sofferenza dei malati?
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“Alla fine di questa esperienza ho dovuto provare un distacco emotivo per via delle amicizie che si erano create con queste straordinarie persone, per me molto care. Dire loro addio. Ho conosciuto molti di loro che sembravano sani anche se erano ricoverati negli hospice. Ho assistito ad un processo di decadimento progressivo e la morte alla fine era sempre una sorpresa. Un'esperienza in cui potevi proiettarti nelle storie di loro e immaginare la propria morte. Ora guardando queste foto noi non conosciamo queste persone ma è grazie ad una forma di empatia che diventiamo tristi. Volevamo seguire le persone nell'ultimo periodo della loro vita per apprendere da loro alcune sensazioni sull'accomiatarsi e sulla morte. Una volta era quasi inevitabile vedere sin da piccoli i propri cari in famiglia nell'istante della loro fine della vita, o deceduti. Si moriva in casa. Oggi si cerca di evitare la vista del dolore e della morte”.
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Le sue foto sono state raccolte in un catalogo che spiega gli intenti.
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“Abbiamo voluto realizzare il libro dove sono pubblicati i testi che servono a spiegare le fotografie. Le foto e i testi però hanno la stessa valenza. I visi sono la dimostrazione dei testi che raccontano di una vita e di come sono decedute queste persone”.
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Può consigliare quale atteggiamento è utile porsi di fronte a queste immagini?
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“Non ci sono istruzioni d'uso. Ognuno si avvicini con la propria sensibilità, le proprie paure, le sue esperienze. Ognuno di noi ogni giorno soffre per i propri cari che muoiono. Ognuno vive con la propria sofferenza, con la propria condoglianza che non viene condivisa. Ridere è permesso mentre piangere ci fa vergognare. L'idea che anche la nostra vita finirà ci fa rendere conto che ad ognuno di noi toccherà la stessa sorte. La nostra vita e la nostra cultura ha molti aspetti che riconducono alla morte. Se ascoltiamo il Requiem di Mozart o le Cantate di Bach, ascoltiamo una musica dedicata alla morte. Se entriamo in una chiesa cattolica ovunque è presente l'immagine della morte. Il fatto di non occuparci della morte ci costringe a chiuderci e si si allontana, ma facendo così il tema diventa più potente”.
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Lei ha vissuto la realtà degli hospice in Germania, dove queste strutture esistono da tempo. Che giudizio ha nei confronti dell'Italia dove ancora si stenta a crearli?
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“Sono convinto che sia necessario che anche l'Italia si adegui molto presto, anzi è urgente che vengano realizzati anche da voi. Sono strutture indispensabili per alleviare le sofferenze di tanti malati. Anche altrove si muore ma nell'hospice avviene spesso in modo inaspettato, quasi per caso. Sono luoghi di vita per persone in fin di vita, dove, grazie al progresso della medicina moderna, essi possono trascorrere i loro ultimi giorni nel modo più consapevole possibile e privi di sofferenza. Chi viene qui sa che non tornerà più nella propria casa, che deve congedarsi e presto la sua vita giungerà al termine”.
Roberto Rinaldi
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-Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi -Materiale, intervista e testi di Roberto Rinaldi -Editing: Anna De Vivo cinquemarzoduemiladieci |
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