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La Signora

I
Ero rimasto solo nello scompartimento, quando la Signora, che doveva appena essere salita su quel treno, apparve dietro il vetro dello scorrevole e guardò se v’era corrispondenza tra i numeri a fianco della porta e quello della poltrona prenotata, stampato sul talloncino beige che reggeva all’altezza del seno come fosse presbite.
Una volta assicuratasene, appoggiò la mano inguantata dello stesso colore del biglietto sulla maniglia d’ottone e, senza sforzo alcuno, il battente scivolò all’indietro riportandomi per una frazione di minuto alla realtà sonorizzata del marciapiede ferroviario.
Dietro il finestrino del corridoio un signore biondo grigio, alto e corpulento, sbarbato perfettamente, dopo averla baciata sulla guancia, si stava chinando a raccogliere la valigia della moglie, di cui potevo scorgere solo il cappellino fiorito ed una sezione del viso.
Anche la donna appena entrata indossava un cappello, a tese larghe, color sabbia come i guanti, che si intonava deliziosamente con il tailleur nero fumo che finiva sotto le ginocchia. Dallo stesso pendeva un velo che poteva solo farmeli indovinare, i lineamenti del viso.
Mi alzai, arrossendo leggermente per non essere stato pronto come avrei invece voluto, e con lo sguardo chiesi il permesso di poterle alloggiare la valigia sulla reticella all’altezza del copricapo. Sedette.
Non era molto alta, direi anzi di statura più bassa di quella media delle studentesse che avevano pochi istanti prima svuotato la cabina, ed i fianchi, pur se strettamente inguainati dalla sottana, mi sembrarono anch’essi un poco ridondanti rispetto ai canoni di snellezza anoressica che già imperava da un decennio.
Risuonò in quel momento il fischio del capostazione ed il treno cominciò lentissimo, senza alcun stridore di rotaie, senza altro rumore che quello del respiro di lei ancora leggermente affannoso, a darmi l’impressione che fossero i vagoni di fianco a muoversi.
Lasciavamo Vienna destinazione Simferopoli, Crimea, Mar Nero, l’antica Scizia.
Qui avrei rincontrato Andrej, il mio fratellino ucraino, lo studente di prima ginnasio che aveva trascorso quattro stagioni da fine maggio ad ottobre inoltrato nella casa dei miei genitori, per sfuggire il più possibile ai veleni di Chernobyl.
Trascorsi alcuni minuti la Signora trasse dalla borsetta a tracolla, senza posarla sulla pelle dei sedili, un libro con il titolo in cirillico, e lo aprì, sfogliandolo velocemente, fino a circa metà.
Poi cominciò a leggerlo, estraniandosi completamente dal paesaggio pianeggiante che scorreva sui finestrini.
Non c’era vagone ristorante, e una cena parca, fatta di insalata russa, patate lessate, intere ed alcune altre verdure assolutamente non condite, ci fu servita da un ragazzo altissimo, magrissimo, in divisa e cappello con visiera, verde scuro.
Dietro mia espressa richiesta lo stesso inserviente venne, dopo essere arrivato alla fine dei tre vagoni di prima classe ed essere tornato indietro, con due bustine di sale, porgendoli ad ognuno di noi con aria sussiegosa.
La Signora rifiutò con un cenno del capo indifferente, così tenni la seconda bustina per il pranzo del mezzogiorno seguente.
Il medesimo, dopo circa due ore, tornò a prepararci le cuccette per la notte.
Appena potevo, durante tutto quell’interminabile pomeriggio, sbirciando prima con la coda dell’occhio, distoglievo alternativamente gli occhi dalle riviste in italiano acquistate alla stazione di  Bolzano e dalla monotonia del bassopiano, per concentrami su di lei.
Quella donna portava con sé un’eleganza estrema, seppure retrò. Anche gli stivaletti di vernice lucida oltre il polpaccio contribuivano al fascino d’insieme.
Così finalmente, e ciò successe circa un’ora prima della cena mentre la luce di un sole rannuvolato lasciava posto alle intermittenze delle plafoniere elettriche, imponendomi uno sforzo mnemonico trovai il coraggio di focalizzare il titolo della lettura che la stava avvincendo.
Histoire d’O. 
II
Scesa la notte, ci volemmo coricare.
Anch’io, d’altra parte, m’ero portato dietro alcuni libri per farmene compagnia durante il viaggio ed il soggiorno e, terminata la cena, ne avevo tratto uno a caso dalla valigia.
Ricordo, come ora, fosse l’Idiota.
Moltitudini di testi che acquistavo in ogni occasione e in ogni luogo ove potessi scorgere una libreria, un edicolante, una bancarella; pagine che non avrei mai prestato ad alcuno, tranne che ad una persona particolarmente cara con la quale, dopo un’attenta e lunga osservazione della stessa, avrei voluto confrontarmi.
Non parlo della qualità dello scritto dal punto di vista letterario, né prettamente artistico. Perché so ormai quanto i punti di vista di ognuno di noi su certe tematiche possano divergere, ma dei messaggi, di quelle folgorazioni che ti da una frase, l’idea sulla quale tu, ed i sapienti, finalmente concordate. La cosiddetta universalità della parola, il discorso che colpisce senza distinzioni uomini e donne, giovani e vecchi.
Quel passo sul quale chiudi le pagine scordandoti, se ancora lo trovi in giro, di lasciarci il segnalibro ed al massimo, presagendo di rimanere per qualche minuto almeno interdetto, cioè a rimuginarla, ci lasci il pollice destro.
Se è talmente profondo il senso, da costituire una tempesta e non un solo lampo notturno, prima dello schiocco memorizzi il numero di pagina.
Ora, dell’Idiota, come moltissimi degli altri, io ci avevo passato tanto tempo prima di iniziarne la lettura. Devo dire come avessi imparato, via via, prima d’andare al sodo, a trovare utile soffermarmi sul retro delle copertine, le prefazioni, la vita dell’autore, fin anche l’indice.
Era, la mia, un’esplorazione dall’esterno, una serie di annusamenti controvento, vedute, che mi facevano comprendere se l’autore meritasse d’esser letto fino alla fine. Era come sentirsi un predatore, tornare ai sensi, primariamente. A riprenderli.
Oggi, ancora, guardo la mia piccola biblioteca a vetri e riconoscendo i dorsi, so quali di essi ho incominciato, o terminato. Perché comunque tutti, quelli che m’hanno fatto spendere per averli, dopo la prefazione meritavano un appello.
Dicevo, era scesa la prima notte.
Fuori, era una sfilza interminabile di luci, che a volte si sovrapponevano a blocchi di figure solide, a volte ad ombre d’alberi che correvano all’indietro.
Non guardai l’orologio da polso quando ella disse, con quella voce da mal di gola, *“Vielleicht koennten wir schlafen”, sollevando per la prima volta quel giorno la veletta.
Non era un rimprovero, né una domanda, ma invece un comando anche se espresso non concisamente, pur se accompagnato da un sorriso di cortesia.
La Signora si alzò e si accostò allo scorrevole, mentre io quel giorno mi alzavo per la terza volta e poggiavo la sua valigia sui sedili.
Poi mi allontanai nel corridoio per permetterle di aprirla in libertà .
Quando la vidi dirigersi verso il servizio sul lato opposto a dov’ero, con in mano un piccolo asciugamani, una veste da notte color pastello e nell’altra un beauty case, mi affrettai a tornare nella cabina per compiere le stesse operazioni sue, prepararmi per la notte e poi tornar fuori in tempo.
Quindi mi diressi a mia volta ad un servizio.
Quando tornai le luci erano spente, le cuccette a posto, le tendine diligentemente tirate senza lasciare luci fastidiose, e la donna era salita. Aveva scelto appositamente il terzo piano. Le sbarre a salvaguardia, insieme ai riflessi argentei della scaletta., rompevano il buio che altrimenti sarebbe stato assoluto. “ Gute Nacht” dissi, ed ella, con quella sua voce curiosamente gutturale, rispose lo stesso, ma due toni sotto.
Prima di prender sonno, pensai al suo viso, e a quella voce. Nulla di particolare, in effetti.
Direi non quelli che ti lasciano incredulo che delle sembianze, oppure dettagli come gli occhi, la bocca, il naso, la linea del collo o l’incarnato, possano donarti tanto stupore da sentire il desiderio di toccarli, farli tuoi. La voce roca avrebbe potuto dipendere da un raffreddamento improvviso.
III
A colpirmi era invece stato il sorriso.
Un sorriso fra una tagliola ed un posto a capotavola.
 
 
 
 
 
 
 
 

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