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Lingua italiana

Allitterazioni

A mano bassa

a mano

giovinezza

dita a fumo,

aperte, chiuse

a libro a inanellare sogni

 

e sogni

su dei cieli

 

 

 

7/3/12 (diario)

 
 
Inattuabile allestirne una pira
quindi separo cose per la via del macero e cose
per una bara di cartone
 
il pegno è attraversarle tutte
 
Sulla scena del matrimonio
mi guardo le dita nascondere due volti

Corruttori e corrotti

 
Mai, come in questi ultimi anni, un vocabolo della nostra lingua è stato piú adoperato dai massinforma (stampa e radiotelevisioni) per mettere in evidenza il malcostume che ha imperversato (imperversa?) nel mondo politico: la corruttela, con corrotti e corruttori, naturalmente. Ma non è di questo fenomeno che intendiamo parlare, non è questa la sede adatta e non è nostro costume invadere il campo di sociologi ed esperti vari. Vogliamo parlare della “nascita” del corrotto sotto il profilo linguistico. Se apriamo un qualunque vocabolario alla voce in oggetto, leggiamo: scostumato, viziato, infetto, impuro. La persona corrotta, quindi, è moralmente “infetta”, vale a dire che il suo animo è stato guastato, infettato, disfatto - naturalmente in senso figurato - perché “corrotto” non è altro che il participio passato latino del verbo “cum-rumpere” (‘corruptus’, corrotto) e vale “disfare”, “guastare”.

Il gergo e il dialetto

 
Molte persone confondono il gergo con il dialetto, nel senso che li ritengono l’uno sinonimo dell’altro. Non è cosí, anche se i due termini possono essere considerati una lingua. Facciamo chiarezza, dunque, cominciando con l’esaminare il primo vocabolo: gergo. Sotto il profilo etimologico la voce, intanto, non è schiettamente italiana (o latina) ma francese, per la precisione il francese antico “jergon” o “jargon” (‘linguaggio degli uccelli’, quindi linguaggio ‘incomprensibile’). Il gergo, infatti, come lo definiscono i vocabolari, è “una lingua speciale usata dai membri di un gruppo che non vuole essere capito dal resto della comunità”, oppure “linguaggio convenzionale limitato a una ristretta categoria sociale” e per estensione “ogni linguaggio artificiosamente diverso dal linguaggio comune”.

l’interpretazione del testo poetico - da una mail ricevuta

Cara Manu,

Dante: Limbo-contrappasso

di Francesco Anelli

blob

 
Melassa rosata che cola
cristallizzando la cornea
intasando le narici
il cavo della bocca
Muove in serpe all’arteria
glicemizza
ottura
invade irrigidendo le dita
tendendole a nulla

La mente e l'avverbio

Felicemente, costantemente, opportunamente, eccetera. Quante volte nello scrivere e nel parlare adoperiamo queste parole per esprimere uno stato d’animo o il modo in cui viene svolta o svolgiamo un’azione. Forse, però, non ci siamo mai soffermati a riflettere sul perché queste parole hanno la medesima terminazione: mente. Vediamo, dunque.
 

Lettera a Babbo Natale, all'anno nuovo, alla Befana

Le tre lettere più significative secondo la redazione, sono state:
 

I «singenionimi»

 
Non lasciatevi ‘impaurire’ dal titolo, cortesi amici e amatori della lingua italiana: il termine che avete appena letto – di provenienza greca – rientra nel ‘glossario’ dei vocaboli e indica un nome di parentela, come padre, madre, consuocero, ecc. Uno zio, quindi, dal punto di vista prettamente linguistico è un “singenionimo”, vale a dire un nome che esprime un rapporto di parentela. Molti “testi sacri” (vocabolari - ad eccezione del Battaglia e del GRADIT - e grammatiche) ignorano questo termine che noi, invece, vogliamo mettere bene in evidenza perché siamo fermamente convinti del fatto che chi ama la lingua deve conoscere il “gergo” e tutte le norme che la regolano, e tra queste ve n’è una che stabilisce il corretto uso dell’articolo con i… singenionimi. 

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