a forma di te
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lei
lei come vento aperto ai mulini
nel disfare i tratti della casa, le corolle
appese agli archi del costato
lei che scende dal carro nuziale
con le calze di seta
i sogni piccolissimi, non oltre
l’alpeggio, il canto del gallo
una caramella
sulla lingua dello sposo
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Papille
di fiume in foce
chiama l’amore ad ultrasuoni
come vicissitudine di gigli
al profumo che copre un dolore
animale, minerale, vegetale
si fa crepa di me, papilla
simile al buio, strada a salire
un olimpo migrante
che mi dichiara
morte
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Solchi
di terra imperfetta nei nastri profondi
dell’addome, la costola appesa
incerta ai muschi, alle cantine
ove morde una guerra diversa
come un tramonto secco, apribile,
a me che ti scrivo con le mani
i solchi fertili, i dialetti
ridenti sul pelo dell’acqua
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regressioni di stile
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Aperture
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Sanaa
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silouette di una morte
è vitale voltarsi in dietro sulla strada che allenta
la luce e ci grazia di ghirlande
inseminazioni esatte per la stagione, approfittando
del pane che dorme e i cachi
inconsiderati fra la neve, mostrano
i miracoli che fa il Natale
girarsi attorno dall’ostinazione
di una casa, come ladra di quartiere
porte che parlano alle porte
sminuzzarsi, concatenando traslazioni
silouette
dipinta sulla vetrina del barbiere
fummo soliti leggere foglie e disordini
stagnature sugli orli del tempo
sconnesso, un andirivieni come il comporsi
di fiordi nell'apnea delle nuvole
*
venne il giorno per il perenne amore
che fu tutto un chiudersi fuori, un vagare
per togliersi di mezzo
monologo reciproco, imbiancare d’ombra
lo scheletro di una mano, sul muro, gli zigomi
a bruciare le intercapedini di ogni riminiscenza
*
abbiamo scelto la strada della fornace
i fossi erano larghi come spicchi di fanghiglia
trovammo la sua bicicletta rossa
lei, poco più in là, pallida come il sale
arrugginita di melma
che lievitava maniche fuor d’acqua
sculture pronte a cuocere
aveva chiesto la cremazione sulle coltri di giaccio
nei luoghi chiusi non voleva tornare
preferiva mettere al macero le carte, la gente
le vecchie cose, forse il Natale, che considerava
cometa minore, sgomento chiuso a chiave
si era sempre resa conto delle sue mediocrità
ma invadeva il bianco della neve
con la naturalezza del sangue
senza compleanni, senza cimiteri
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scrosciando
dentro ringhiere, dissomiglianze
come ustioni, quella innocenza
appesa a una lanterna
o quinte di un mercato, orfane
castigate d'ingratitudini e occhi
assaporano sudori
il giorno più nero
intercalare di solitudini
un motivo per aspettare
se ci saranno ancora carreggiate
il fuoco sulle dita, scrosciando
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sgomenti
*
dunque la stagione si stringe tra decimi
di indifferenza (funesta) e il giorno
genuflesso come gomitolo minore
senza riaprire sorgenti a braccia larghe
- diventa mollica sperduta, come traccia
nei selciati dove nulla è al riparo - tutto
inghiottite il bello di quel doppio amare
gli anni dieci a dieci, prossimi di follia
li lascerò pendere dai miei occhi
*
guarda quanto imbiancano i miei occhi
al camminare di circonferenze
su architravi che raddrizzano persino
le anse di un fiume, ché la piena
non trova foce, né storia, né nome
per farsi amare - come somigliasse
ad una fata di leggenda - e sette fiumi
dove il corso di nudi messi a torre
ritorna dal mare come un pensiero fisso
che non muore tra gli equivoci
e la voglia di trovare, non ritrovare
*
ci sarà storia per uscire dallo stallo
passando tra le gambe a penzoloni, come
se nulla dovesse quadrare, quasi a togliere
tormenti alla ragione, lucidità perfetta
i piccoli paesi sulle rive, le vene intorno
di quel muro che mi sorge - sgomento
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