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Paura di...

Sotto i nostri piedi
un unico
            inferno
Sopra le nostre anime
così tanti
              paradisi
Ma l'indeciso non sa quale scegliere,
così tante meraviglie divine.
Non ha tempo...di pensare.
Viene dannato.
E questo inno al
tempo
che scorre sempre
imperterrito
qualsiasi cosa accada.
Questo suo modo di affrontare
l' eternità
potrebbe essere...errante.
Possiamo
distruggerci,
martoriarci,
amarci...ma lui sempre se ne va.
A volte come ipocrita,
come eccentrico,
come indifferente...
Forse ha solo paura di riuscire ad...amare.
Sotto i nostri piedi
un unico
            inferno
Sopra le nostre anime
così tanti
             paradisi

Inevitabili tramonti

In mare all'imbrunire
vedremo mete e ore
aggiunte o mai raggiunte
comete come tante

Su navi clandestine
supine chiatte piene
saremo noi stranieri
e ladri di pensieri

Poeti o delinquenti
assieme tutti quanti
svelando i movimenti
momenti spinti o spenti

E serreremo al mondo
quell'occhio vagabondo
schiudendo il nostro nulla
o dando a Dio la folla

 

Ritratto di donna

Traspari gocce
di caldo miele, d'oro
leggera brezza.

Lontano tieni
ombre nere di male
fredde carezze.

La spiaggia di Eva

I grandi occhi  di Eva si aprirono a fissare il soffitto della stanza. I pensieri presero in quell’istante ad affollare la sua mente. Sbatté le palpebre e volse lo sguardo verso la finestra spalancata. I raggi del sole entravano dolcemente, sfiorando i suoi capelli sciolti sul cuscino. Con i fasci luminosi faceva il suo ingresso anche la voce del mare. Giungeva come un’ antica e commovente cantilena a rammentarle l’imperfezione del suo cuore. Solo una candida striscia di sabbia  separava il mare dalla sua casa, per quella ragione l’aveva scelta: “apro la finestra e sono sul mare!” si era detta appena  l’aveva vista. Eva richiuse gli occhi per un istante, e quando li riaprì discostò dal suo corpo le coltri. Si sedette sul letto e, sollevatasi diresse i suoi passi verso la porta. Senza prestare attenzione allo spettacolo che si svolgeva alle sue spalle, …come se il suo animo fosse stato in grado di apprezzarlo. Varcò quindi la soglia della sua camera e percorse  il buio corridoio, per giungere poi nella cucina. Il vaso di vetro e il piccolo pesce rosso attirarono la sua attenzione, due passi e vi si trovò innanzi. Aprì l’anta della credenza per estrarne il piccolo contenitore del mangime e versarne una presa. Appena il cibo raggiunse la superficie dell’acqua il piccolo inquilino si proiettò su di esso e iniziò a banchettare. Un lieve sorriso comparve sul volto della donna, che subito si allontanò e aprì il cassetto dei medicinali. Flaconi su flaconi riposti ordinatamente in fila come bravi soldatini, uno di fianco all’altro.  Afferrò quindi tre contenitori ripieni di piccole perle, piccoli perfetti gioiellini. Prima di varcare ancora la porta si voltò un’ultima volta verso il pesce e la

Come ci rotola la memoria.

 - Se le statue cedono i marmi, se le balaustre
abbandonano i ferri e i ponti, i ponti scavallano

Artemide (o della libertà)

Guardala Artemide quant'è bella
quand'agile corre nel fitto bosco:
rapida scocca la freccia d'argento,
cruda assassina.
 
Gemella d'Apollo, figlia di Zeus
lei volle vivere libera e forte,
nella luce che scende tra le fronde,
dea della caccia.
 
Vergine fiera non volle amanti:
mutava in cervo chi la guardava
e lo faceva sbranare dai cani
(oh, Atteone!)
 
Con lei stavano sessanta fanciulle
dai nove anni, belle ninfe di mare,
anch'esse femmine giovani e fiere,
ed io tra loro.
 
Vivevamo danzando e cacciando,
qualcuno ci dice senza l'amore,
ma io amavo lei, la bella Diana
dal corpo snello.
 
Le donne insieme le dicono sole
come mancasse loro qualcosa,
eppure noi eravamo felici,
libere, vive.
 
Avremmo dovuto essere schiave
di un marito, un padre, un fratello.
Invece no, noi fummo sorelle.
Voi, siete soli.
 
 
 

rami di nulla

si fa stalattite di ghiaccio
il rigurgito delle iridi
e poi ghigliottina
a recidere rami di nulla
oscuranti una quiete appesa

I silenzi del comunicativo - Delle tue colonne ancora

Non ci sono più fumi a Londra
non aspettano i risvolti

I due nemici

Il Caporale Jon mastica in continuazione chewingum impeccabile nella sua uniforme estiva dell'esercito USA: camicia e pantaloni lindi. stirati a vapore, con delle pieghe talmente evidenti da sembrare la divisione del mondo e scarpe nero brillante. Appoggiato allo spigolo della porta, con aria indifferente, da atleta a riposo, si guarda le unghie delle mani, cercando qualche imperfezione. Introduce e accompagna alla porta i prigionieri che vengono escussi nell'ufficio del Comandante. Un tipo dall'aria efficiente seppur con quel vizio maniacale della cura delle unghie. Era un posto di responsabilità, eppure lui appariva quasi superfluo. Come sogliono fare gli americani, in fondo al corridoio, prima della serie di porte per gli uffici, era posto uno specchio, perché gli ospiti si acconciassero a dovere prima di presentarsi, non per vanità ma, perfezionisticamente quasi a testimoniare che la forma è sostanza e Jon, se possibile, l'ha consumato fino alla più sottile lamina riflettente. Bello, fisicamente, come deve essere bello un vincitore, Jon, sebbene non avesse sparato un colpo di fucile, era tra i vincitori della guerra.
S'accende la luce rossa sulla porta dell'Ufficio Interrogatori, Jon apre la porta e due MP escono con in mezzo un soldato in grigioverde.

L'attesa

Aprii di colpo gli occhi. Un sudore gelido ed appiccicaticcio mi teneva incollato al letto e la sensazione di essere osservato era sempre lì, prepotente. Girai lo sguardo e fu allora che La vidi. Seduta accanto al letto con la testa china, pareva dormisse accanto a me.  Attendeva. Fu così, per un anno. Cambiavo spesso letto e stanza, ma Lei non si confondeva ed ogni volta la ritrovavo seduta, paziente, in attesa. Quante volte ho provato a spiegarle che la mia presenza era fortuita, non voluta. Non alzava neppure lo sguardo, immobile statua di sale, muta. La sua presenza, seppure così inquietante, alla fin fine mi fa compagnia - pensai- mi stavo quasi abituando a questi strani e periodici incontri fatti di completi silenzi  e di attesa oramai condivisa.  Una voce a me cara mi richiamò alla vita. Era l’ultimo giorno. La Signora alzò la testa e vidi i suoi occhi: gelidi pezzi di cristallo sfaccettato che riflettevano la mia immagine e me la rimandavano scomposta, spezzettata. “Non si fa aspettare così una Signora…” mi disse aprendo per la prima volta quella specie di ferita sghemba che le attraversava il viso. Si alzò e scomparve. La puttana.

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