Scritto da © Manuela Verbasi - Ven, 03/12/2010 - 14:00
* immagine dal web
La ladra di bigodini
© Greta Rossogeranio
La natura gioca a belle statuine con gli alberi disseminati lungo il viale; le balde speranze planate e poi scappate.
Analizzo il mio spinoso scontento cercando di stabilire se questo è il debutto di qualcosa o il suo confine.
Un cespo di ricordi antidiluviani mi sfila accanto verso l’infinito.
Rotola in qualche meandro nascosto del mio cervello, sotto calore.
Mi rimorchio dietro queste vischiose ragnatele impaniate nei bigodini vivaci, senza scrutare i recessi evolutivi che le ricamano.
Nella luce della lampada a collo d’oca concludo che la storia, stasera, deve finire.
Senza seme; quella minuscola frazione di te medesimo risucchiato nel turbine del mio sifone.
Diluito in un circuito nuovo, ma ancora forte abbastanza da negare la propria sorgente.
Giornata maniaca.
Un colpo d’ala e una ventola di progetti e di pensieri.
Ho dieci minuti di tempo per prepararmi.
Devo fare in fretta la piega e domare i lunghi capelli.
Mi guardo riflessa nella sfera di vetro, ciocche vermiglie da tutte le parti.
Il viso è nascosto, nemmeno uno spazio per qualche planata.
Specchio delle mie Brame, raccontami di una piumosa canaglia a posa d’albero, su di un’ara d’antistatico linoleum!
Una scarmigliata gazza ben svestita, per l’ultimo grido regale.
Tu sei già arrivato, in anticipo.
Rimani concavo ad aspettare in auto, con le ginocchia aperte e le dita nervose a torturare il cruscotto.
Riservato, presuntuoso; l’incarnazione di tutti i rampolli d’autorità che presiedono i freddi laici e clericali vertici della contrada, abbindolati nei loro imbiancati giudizi.
Stasera con me siederai al margine della liberazione, l’espressione radunata come un monumento a tutto o a nulla.
Nella fronda d’edera avvinta che contraddistingue il mio capo, il nodo della follia.
La pianta di Dioniso.
Ti guardo dalla finestra oscurata.
Hai la testa china posata sul lato del finestrino, la fronte aggrottata in un deliberato cipiglio.
Un circuito d’intelletto raccolto, che io ho circonciso con il mio nerbo dolce.
Lo staffile intricato all’aroma di zuccherosa liquirizia.
Sei lanciato alla conquista dell’ultima Dama barocca.
Io.
Davanti allo specchio al quadrato, la mia lingua gocciola come una vongola nervosa.
Lo smalto delle unghie è ridotto a rossa astrazione.
Già mi compiaccio attraverso la cornice bianca, quando i vermicelli attorcigliati sembrano ad un tratto germogliare in testa, spostando i follicoli ingegnosi.
… Tutto è iniziato con la caduta di un bigodino, magnetico.
Una dominata premonizione.
Nel protendermi a raccoglierlo, lui ha iniziato a stringere e serrare; lucido e rapido come luce boreale, mi ha propinato un’elettrolisi gaudente.
Costringendomi a ricalcolare l’acconciatura.
Così l’ho fatto, a modo mio.
Non con una pacchiana alchimia che anela a trasmutare i vili metalli in oro.
Bollata dalla croce instabile a cinque punte, ho srotolato ogni groviglio nel panteismo primitivo, aborrendo tutte le mere pratiche idolatriche.
Quelle mefistofeliche, che abbracciano l’albero e baciano la pietra.
Aggiogata dal torbido preludio, ho braccato l’angolo doppio oltre le colline tonde, denudate.
Aggrappata al tuo rigido compasso, di colore morello, mi sono posta ovunque, senza bisogno di piazzarmi dove tutte agognano, nel centro.
E’ tardi, devo fare in fretta.
Poso il mucchio di diavolini che tengo in mano.
Già pregusto la montagna di rocce sedimentarie e scisti filladici neri che mi aspettano.
L’ottuso gigante permeabile dalle spalle larghe, acquattato nel suo nascondiglio di Mesquites alla ricerca bramosa, attraverso moine e pantomime, di suscitare una soap opera senza puntata.
Per strategia beffarda ti accordo lo spartito, ma rimango a togliere rulli rossi e gialli, per buttarli nel gran contenitore.
Anche stavolta, con un’enorme spirale bicolore, digiunerò fino a quando l’ultimo morso spingerà la forza del fiato.
Per adempiere allo sforzo della caduta, nel suo cessare d’essere.
So già che la cena sarà sempre la solita.
Stesa con sintassi corretta ed esibita nel monogramma di un tovagliolo senza una piega.
Zuppa con panna montata a galla, e fettona di carne rossa.
Per dessert: mousse di gelatina molle vischiosa glacé, servita sulla solita foglia di adamitico fico.
Tutto bagnato da cerchi concentrici di vino nero, d’origine controllata e certa; garantita.
Ma nonostante la lacca delle congetture, i miei capelli non ne vogliono sapere.
Per fortuna il mio esistere ultimo-stile inizia a cantare, con la perla patinata nella gola che modella un tuono.
La mia tiroide sboccia, i boccoli ricadono a zampilli, come una fontana.
La chioma si ristabilisce.
Esco sulla strada.
La coda dell’occhio scorge in un lampo la rotazione.
Le nubi montate a neve, l’acquamarina della bassa marea in lontananza, le macchinine giocattolo, le miniature intinte a tirarsi le biglie invisibili, stolidamente attaccate le une alle altre ai paletti mediatici di recinzione.
Fa caldo.
La mia temperatura fisica vibrante è satura e piano si condensa.
Alzo gli occhi.
Le stelle algide sono buttate a casaccio nel pavimento capovolto; sono scintille di un’altra vita.
Accovacciate e distese come stille di borace, tengono la scacchiera in equilibrio sulle mie aspirazioni.
Quel soldino tondo di luce piena è la pedina mancante.
Non la trovo da tempo.
Il desiderio ristretto s’incastra nella scatola dei cilindri cinesi.
Salgo in auto attenta a non scompigliarmi la chioma.
Mi scruti con i tuoi occhioni sbucciati d’uva di Malaga; come un gigantesco doccione di raccolta, un demone ansioso.
Tendo la mano all’ovale argenteo dello specchietto retrovisore, tardando a mostrare i denti puntellati a difesa contro la tua singolare trivialità.
Un punto focale zuppo di sudore irruvidito dalla foia dell’attesa.
Rapinoso esperanto di un altro emisfero che ci ha avvicinato.
Il buffet del Bene e del Male guarnito dalla tua coda di plastica gommata, in pergamena per noi, stasera.
Come si può dire addio alla stessa immortalità interpretata da questo azzardato e fornito menu?
La curva della pancia rintocca sonoramente.
Aggiunge lacci alle scarpe, gemelli ai polsi della camicia, fazzoletto nel taschino.
Ossia una falena in energica copulazione con un pipistrello.
Nel segno di una malinconia involutiva assicuro il rifugio antiatomico che preserva le farfalle, gli scroti e un marasma d’organi sconosciuti e ruscellanti.
Mi guardi sempre allo stesso modo, sciolto e liquido.
Brodo.
Il tuo rubinetto di mezzo perde gocce a non finire; una fontanella macchiata di parabole scure di ruggine.
Lo rovescio un mare di volte fino a che un residuo gassoso e pletorico non si omogeneizza.
Il membro rosa pallido fa capolino tra le pieghe del pensiero, listando con tracce di muco di lumaca tutto il sedile.
Che succede? Non credi più al Paradiso?
Il verme racconta dell’eventualità della mela rossa cagionata dal fiore.
Che t’importa della vivisezione del nocciolo?
La tua raffica dialettica ricade subito floscia sul cruscotto, mentre appallottolo l’involucro di caramella alla menta e mi lecco il pollice.
Nella crocchiante carta cerata sfido il guscetto di plastica vuoto, a virgolette aperte, e sfodero con un sorriso a due piani le mie acuminate schegge di tigre.
La mia mano sfiora strisciando tra le pieghe labiali del portafoglio, e tocca lievemente con la schiena il volante.
Il clacson suona nella notte muggente.
Creature emerse a fatica dal caos del sonno s’affacciano alle finestre.
Sparisce il mio mazzo di fili di liquirizia e nello specchietto retrovisore mi rimiro.
Specchio delle mie Brame, ho ritrovato il bigodino!
Il mio tondino di luce di riserva.
Il ricco bolo di gomma sofisticato, in forma fetale incolta.
Scendo dall’auto con il bocciolo in testa, avvinto nel groviglio di reticolato rosso.
M’inerpico con le mani, schermandomi gli occhi per tenerli in vista nella foresta di ceppi contorti e tolgo infine il cromatico congegno vintage, ripescato nell’intricato trofeo miscellaneo.
Rientro in casa a pettinare i filamenti strani, come spronati ossiuri, fomentati da uno spesso strato di cera.
Li aggiusto uno ad uno con il dito sergente, per seguirne la piega.
La coiffeuse che accudisce gli innominati e fronteggia i nemici oscuri.
La notte sta per finire.
Indosso una veste bianca e fluida, ornata da melograni rossi.
Eludendo tutti i sistemi, so bene che domani sarò introdotta pazza.
E chiamata in giudizio dalla Corte Suprema.
Come una marciatrice statica, imbastisco un certificato di sanità mentale, ossia l’antidoto capace a neutralizzare ogni falsa autorità in materia di opinione.
Per togliere il mordente, e il germe.
Si proceda con deliberata prontezza!
Io governo sotto il segno della rampicante edera, legittima seguace di Dionisio.
Il grano della Follia.
Io sono l’imputata a boccoli,
l’ultima Dama barocca.
© Greta Rossogeranio
La natura gioca a belle statuine con gli alberi disseminati lungo il viale; le balde speranze planate e poi scappate.
Analizzo il mio spinoso scontento cercando di stabilire se questo è il debutto di qualcosa o il suo confine.
Un cespo di ricordi antidiluviani mi sfila accanto verso l’infinito.
Rotola in qualche meandro nascosto del mio cervello, sotto calore.
Mi rimorchio dietro queste vischiose ragnatele impaniate nei bigodini vivaci, senza scrutare i recessi evolutivi che le ricamano.
Nella luce della lampada a collo d’oca concludo che la storia, stasera, deve finire.
Senza seme; quella minuscola frazione di te medesimo risucchiato nel turbine del mio sifone.
Diluito in un circuito nuovo, ma ancora forte abbastanza da negare la propria sorgente.
Giornata maniaca.
Un colpo d’ala e una ventola di progetti e di pensieri.
Ho dieci minuti di tempo per prepararmi.
Devo fare in fretta la piega e domare i lunghi capelli.
Mi guardo riflessa nella sfera di vetro, ciocche vermiglie da tutte le parti.
Il viso è nascosto, nemmeno uno spazio per qualche planata.
Specchio delle mie Brame, raccontami di una piumosa canaglia a posa d’albero, su di un’ara d’antistatico linoleum!
Una scarmigliata gazza ben svestita, per l’ultimo grido regale.
Tu sei già arrivato, in anticipo.
Rimani concavo ad aspettare in auto, con le ginocchia aperte e le dita nervose a torturare il cruscotto.
Riservato, presuntuoso; l’incarnazione di tutti i rampolli d’autorità che presiedono i freddi laici e clericali vertici della contrada, abbindolati nei loro imbiancati giudizi.
Stasera con me siederai al margine della liberazione, l’espressione radunata come un monumento a tutto o a nulla.
Nella fronda d’edera avvinta che contraddistingue il mio capo, il nodo della follia.
La pianta di Dioniso.
Ti guardo dalla finestra oscurata.
Hai la testa china posata sul lato del finestrino, la fronte aggrottata in un deliberato cipiglio.
Un circuito d’intelletto raccolto, che io ho circonciso con il mio nerbo dolce.
Lo staffile intricato all’aroma di zuccherosa liquirizia.
Sei lanciato alla conquista dell’ultima Dama barocca.
Io.
Davanti allo specchio al quadrato, la mia lingua gocciola come una vongola nervosa.
Lo smalto delle unghie è ridotto a rossa astrazione.
Già mi compiaccio attraverso la cornice bianca, quando i vermicelli attorcigliati sembrano ad un tratto germogliare in testa, spostando i follicoli ingegnosi.
… Tutto è iniziato con la caduta di un bigodino, magnetico.
Una dominata premonizione.
Nel protendermi a raccoglierlo, lui ha iniziato a stringere e serrare; lucido e rapido come luce boreale, mi ha propinato un’elettrolisi gaudente.
Costringendomi a ricalcolare l’acconciatura.
Così l’ho fatto, a modo mio.
Non con una pacchiana alchimia che anela a trasmutare i vili metalli in oro.
Bollata dalla croce instabile a cinque punte, ho srotolato ogni groviglio nel panteismo primitivo, aborrendo tutte le mere pratiche idolatriche.
Quelle mefistofeliche, che abbracciano l’albero e baciano la pietra.
Aggiogata dal torbido preludio, ho braccato l’angolo doppio oltre le colline tonde, denudate.
Aggrappata al tuo rigido compasso, di colore morello, mi sono posta ovunque, senza bisogno di piazzarmi dove tutte agognano, nel centro.
E’ tardi, devo fare in fretta.
Poso il mucchio di diavolini che tengo in mano.
Già pregusto la montagna di rocce sedimentarie e scisti filladici neri che mi aspettano.
L’ottuso gigante permeabile dalle spalle larghe, acquattato nel suo nascondiglio di Mesquites alla ricerca bramosa, attraverso moine e pantomime, di suscitare una soap opera senza puntata.
Per strategia beffarda ti accordo lo spartito, ma rimango a togliere rulli rossi e gialli, per buttarli nel gran contenitore.
Anche stavolta, con un’enorme spirale bicolore, digiunerò fino a quando l’ultimo morso spingerà la forza del fiato.
Per adempiere allo sforzo della caduta, nel suo cessare d’essere.
So già che la cena sarà sempre la solita.
Stesa con sintassi corretta ed esibita nel monogramma di un tovagliolo senza una piega.
Zuppa con panna montata a galla, e fettona di carne rossa.
Per dessert: mousse di gelatina molle vischiosa glacé, servita sulla solita foglia di adamitico fico.
Tutto bagnato da cerchi concentrici di vino nero, d’origine controllata e certa; garantita.
Ma nonostante la lacca delle congetture, i miei capelli non ne vogliono sapere.
Per fortuna il mio esistere ultimo-stile inizia a cantare, con la perla patinata nella gola che modella un tuono.
La mia tiroide sboccia, i boccoli ricadono a zampilli, come una fontana.
La chioma si ristabilisce.
Esco sulla strada.
La coda dell’occhio scorge in un lampo la rotazione.
Le nubi montate a neve, l’acquamarina della bassa marea in lontananza, le macchinine giocattolo, le miniature intinte a tirarsi le biglie invisibili, stolidamente attaccate le une alle altre ai paletti mediatici di recinzione.
Fa caldo.
La mia temperatura fisica vibrante è satura e piano si condensa.
Alzo gli occhi.
Le stelle algide sono buttate a casaccio nel pavimento capovolto; sono scintille di un’altra vita.
Accovacciate e distese come stille di borace, tengono la scacchiera in equilibrio sulle mie aspirazioni.
Quel soldino tondo di luce piena è la pedina mancante.
Non la trovo da tempo.
Il desiderio ristretto s’incastra nella scatola dei cilindri cinesi.
Salgo in auto attenta a non scompigliarmi la chioma.
Mi scruti con i tuoi occhioni sbucciati d’uva di Malaga; come un gigantesco doccione di raccolta, un demone ansioso.
Tendo la mano all’ovale argenteo dello specchietto retrovisore, tardando a mostrare i denti puntellati a difesa contro la tua singolare trivialità.
Un punto focale zuppo di sudore irruvidito dalla foia dell’attesa.
Rapinoso esperanto di un altro emisfero che ci ha avvicinato.
Il buffet del Bene e del Male guarnito dalla tua coda di plastica gommata, in pergamena per noi, stasera.
Come si può dire addio alla stessa immortalità interpretata da questo azzardato e fornito menu?
La curva della pancia rintocca sonoramente.
Aggiunge lacci alle scarpe, gemelli ai polsi della camicia, fazzoletto nel taschino.
Ossia una falena in energica copulazione con un pipistrello.
Nel segno di una malinconia involutiva assicuro il rifugio antiatomico che preserva le farfalle, gli scroti e un marasma d’organi sconosciuti e ruscellanti.
Mi guardi sempre allo stesso modo, sciolto e liquido.
Brodo.
Il tuo rubinetto di mezzo perde gocce a non finire; una fontanella macchiata di parabole scure di ruggine.
Lo rovescio un mare di volte fino a che un residuo gassoso e pletorico non si omogeneizza.
Il membro rosa pallido fa capolino tra le pieghe del pensiero, listando con tracce di muco di lumaca tutto il sedile.
Che succede? Non credi più al Paradiso?
Il verme racconta dell’eventualità della mela rossa cagionata dal fiore.
Che t’importa della vivisezione del nocciolo?
La tua raffica dialettica ricade subito floscia sul cruscotto, mentre appallottolo l’involucro di caramella alla menta e mi lecco il pollice.
Nella crocchiante carta cerata sfido il guscetto di plastica vuoto, a virgolette aperte, e sfodero con un sorriso a due piani le mie acuminate schegge di tigre.
La mia mano sfiora strisciando tra le pieghe labiali del portafoglio, e tocca lievemente con la schiena il volante.
Il clacson suona nella notte muggente.
Creature emerse a fatica dal caos del sonno s’affacciano alle finestre.
Sparisce il mio mazzo di fili di liquirizia e nello specchietto retrovisore mi rimiro.
Specchio delle mie Brame, ho ritrovato il bigodino!
Il mio tondino di luce di riserva.
Il ricco bolo di gomma sofisticato, in forma fetale incolta.
Scendo dall’auto con il bocciolo in testa, avvinto nel groviglio di reticolato rosso.
M’inerpico con le mani, schermandomi gli occhi per tenerli in vista nella foresta di ceppi contorti e tolgo infine il cromatico congegno vintage, ripescato nell’intricato trofeo miscellaneo.
Rientro in casa a pettinare i filamenti strani, come spronati ossiuri, fomentati da uno spesso strato di cera.
Li aggiusto uno ad uno con il dito sergente, per seguirne la piega.
La coiffeuse che accudisce gli innominati e fronteggia i nemici oscuri.
La notte sta per finire.
Indosso una veste bianca e fluida, ornata da melograni rossi.
Eludendo tutti i sistemi, so bene che domani sarò introdotta pazza.
E chiamata in giudizio dalla Corte Suprema.
Come una marciatrice statica, imbastisco un certificato di sanità mentale, ossia l’antidoto capace a neutralizzare ogni falsa autorità in materia di opinione.
Per togliere il mordente, e il germe.
Si proceda con deliberata prontezza!
Io governo sotto il segno della rampicante edera, legittima seguace di Dionisio.
Il grano della Follia.
Io sono l’imputata a boccoli,
l’ultima Dama barocca.
La ladra di bigodini!
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