Scritto da © Manuela Verbasi - Mer, 03/11/2010 - 13:57
* l'immagine è di Dmitry G. Pavlov
Lama di Luna
di Greta Rossogeranio
Il mio vestito scivola lentamente a terra; ho come l’impressione che il vento stia portando in questa stanza sconosciuta minuscoli fiocchi ovattati di neve.
Guardo attraverso le persiane e mi convinco che si tratta di un debole pertugio di Luce, null’altro.
Forse un chiaro di luna invernale.
“Una lama di luna” penso, mentre socchiudo le palpebre, nel letto, già sprofondata nel calore che si lega all’inguine, sotto le tue carezze precipitose e impazienti.
Siamo nudi e distesi, incollati l’uno all’altro.
Apro un attimo gli occhi per vedere le prime luci dell’alba farsi strada attraverso il traforo della tenda, vedo i peli chiari sul mio braccio rizzarsi e l’insicurezza insinuarsi tra le pieghe, mentre ti stringo ancora tra le braccia.
Rievoco la lancia argentata che separa i corpi, un pensiero lancinante e crudele che non riesco a radiare.
Abbasso lo sguardo, se mi svegliassi del tutto distinguerei perfettamente il chiarore ovattato del primo mattino e i tratti virili dell’uomo disteso accanto a me.
Ho l’impressione che tutto questo non sta accadendo e che io, ora, sia altrove:
non su questo letto, non tra queste braccia prevalenti, fattesi improvvisamente barbare e violente.
Lo scrigno da aprire e le cose da dire.
Sempre più lontana, ti vedo laggiù disteso, accanto al tuo stesso corpo, placido e scoperto, che rilassi e affondi nell’assenza ed io mi sposto lentamente sul sole, che fissa il sapore dell’alito e dei temi.
Tu non noti il mio sguardo, né la lacerazione prodotta; la continua goccia di piombo fuso che cade impassibile e distrugge il mio lembo più delicato.
L’Io invisibile si è aggirato questa notte nella stanza e riflette nel tuo viso coriaceo un’espressione convinta e compiacente.
Fortezza negli occhi chiusi, il corpo pesante ridiventa leggero, si fa lieve e inesistente.
Godo nel vedere attraverso le palpebre semichiuse, ammaliata con le membrane cocenti e madide di sudore; inferma di contagio dal germe del piacere, nel quale mi perdo nello spazio di un remissivo istante.
Mi affliggo a guardarti e detesto quegli istanti di perdizione assoluta, quando i tuoi movimenti diventano veloci e furiosi, prima di cessare bruscamente in uno spasmo senza eco e senza ragione.
Ricomincio a dire “ancora”.
Ancora fino a sentire la tua debolezza, fino a temere di scoperchiare e svuotare il nostro gioco infame.
Ancora fino a sentire la tua debolezza, fino a temere di scoperchiare e svuotare il nostro gioco infame.
Conosco quel deposito secco e viscoso che si accumula il mattino nel dormiveglia; ti stringe la gola e minaccia di tracimare agli angoli del cuscino.
Traccia umida e nauseabonda della notte, quel muco acre che poi scende copioso.
Il prezzo da pagare.
Inghiotto lentamente l’escreato amaro, trafitta da una lama che procede lenta, lasciandosi dietro una scia di mezzelune.
Un vuoto arabescato che avvolge la pellicola del film di questa notte.
Lo sfregio lucido e disancorato di un’avventura breve.
La lama che taglia la luna.
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