Frammenti di Rossovenexiano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Le mete - ferdigiordano e ormedelcaos

Le mete

 
 
Ferdigiordano
 
Sarebbe troppo se m'inventassi un: non andate via? Si potrebbe qui, da uno spiraglio di commento entrare e partire per un disavanzo di parole. Allora inventerei dei passi, quasi un ballo: per imparare lasciatemi Orme. No, non importa l’ordine! Accetterei del Caos, che a me pare una sequenza esatta ancorché libera e frattale. Si potrebbe un discorso minimo, persino l’allusione necessaria ad un silenzio, una mancanza di rumore, il dialogo tra i gigli e le mimose: così distanti in tempo ed in cortili… Che so a parlare di lui mi pare un nuovo incontro. Trovarlo è folgorazione; lasciarlo, rimpianto di un Walteraggio ampissimo che scompone il sole, ne fa tanti solini ed ognuno gode del suo. Ecco, Orme a me pare un gratificante ormeggio creativo, direi una scuola. Meglio, un istituto. Oppure: istituzione! Già mi vedo zainato in fila ed in grembiule, alle scale. Sono timido, quindi ondeggio ancora quanto l'estate andata sugli scogli. Sono timido, perciò temporeggio all'orologio e come lui batto ad ore! Mi sento po' in meretricio e tanto povero... Ma poi lo incontrerò! Mi faccio forza e supero la fila di volata, qualcuno grida: "Non è il tuo turno!", altri mormoreano, che in italico suona più o meno "bofonchiano", ma impavido affronto una porta, poi un'altra, un'altra ancora e... e sono al portatore. Un assegno quasi, come in ogni scuola.
Lui è lì.
Lui è lui.
Lui potrò esserlo anch'io?
Avanzo, come in un pranzo: diresti che seguo Orme?
Ne ascolto quei rimbalzi, le pause contromosse, i confini smessi: uno stato di libero lessico in libera lirica - potrebbero essere di difesa, Ezio scrive ed io ne leggo l'incoscienza - oppure l'agile favella a cui non si sottrae, ma anzi, ma anche, ma di più: s'addiziona! Sommo. Scuoto Ezio, che di rimando mi scuote: siamo scuotati e non entreremmo in borsa se, per quanto piccoli, ci dicessero borsai - capiremmo bonsai... e sapremmo bon perché!
Eppure Lui era un divenire - un mio sogno esserlo - chiesi mi chiamassero Walter, lo fecero, ma non risposi. Non potevo: occorre un tempo per essere nuovi ed un altro per capire di esserlo. Quindi due tempi. Posta una pausa di quindici minuti, fu un vero incontro! Una partita amica, quando Manu s'avviò... Le corsi dietro: aspetta! Aspetta! Credi che puoi sfuggirmi ancora? Ora so. Conosco il mio nome e pur se non è quello che ti volta un viso e uno sguardo, scomponi il passo che t’allontana, oblitera l’eco e torna tu. Ecco, questo dissi a Manu, mano a mano che s’annunciava non il giorno, né la sera o quella notte che mi apparve luna e poi le due e le tre e tutta la redazione: un apparire incauto e virtuale, da madonne e santi: un paradiso di beati in terra.
 
Oh!, quale dramma doversi riparare da quel Vento: dimmi, posso di musica sopportare note che Lui, che Ella, che Loro, che l'aureo impose al dondolo della mia mente incerta? E quale altra firma ci si aspetta se non il ghirigoro arabescato da quel Vento? Quale il suo soffio concavo in quell'abbraccio d'aria che mi conduce aquì?
Ezio scrolla spalle, io sparlo e spallo: ormai è troppo e so che si fa così, fermandosi.
Però però quel Taglio...è avvenuto? Avverrà? Se così fosse dovrei forse tornare per una ripartenza. Che so, un nuovo crogiuolo a grana fine. Ecco, la fine: la zerozero o doppio zero o niente. Sono scomparso e taccio. Ma darò qui una sedia, quella un po' sghemba che mantiene intatto il mio essere e il mio avere; qual che sia, l'importante è copulare. Come quand'ero coniglio, in una qualsiasi vita andata a farsi un po' più in là, da portachiavi.
Gil o Ferdi o Ehi!
 
Orme
Hai preso il motivo, eh! Il motivo intendevo musicale o appropriato nel suddividerne le parti, di cui la prima, e poi le altre. E le altre, poi, che  frattaliche, ancor ci sopravanzano.
Lei, il Signor Gil, diremmo noi. E lo diremmo in coro se lei non tentasse di prenderci anche in giro. Dirci: siamo dei girotondi, quelli delle ultime ore che si accalcano tenendosi per mano ai monumenti della città, esprimendo così quella loro catena umana cui intenderebbero togliere gli altri suoi legami?
Ed allora, ci chiederemmo: Dove siamo?
Siamo sempre nel Salotto della dolce Signora a scambiarci i ruoli e i connotati? A dirci: Lui è lui, l'altro è l'altro, ed io vorrei essere quello seduto là in seconda fila accanto alla dolce Signora?
(è questo  il motivo dominante della voce/interpretazione di Ezio?)
Dovremmo così procedere per due, quasi a sistema binario, o anche a forgiar di nuovi numeri i loro resti pari.
Vai che la lasciamo a te questa canzone salvo ad allacciarci noi: Noi con le mano in mano. O in Manu, se fossimo anche con lei, la dolce Signora, lì in seconda fila.
 
Ferdigiordano
 
E che sia!, mio buon Messere, la sua ampia cadenza a dettare il passo! Orma su orma, suola per suola, scarpa con scarpa, di cui per lei m'avanzo - quasi direbbe, per me, un dare di più. Sarà che vedo filare trame e tramare le fila giù in platea, laddove dalla seconda Manu amai la prima e ve la spinsi, perchè ai fiori fosse dato il miglior sole e la migliore voce che da quello s'irraggia.
Ezio volle il canto e la più giusta sorte per lui fu colta, dacché niuno testo e niuna opra può volersi vieppiù augusta se non già scritta da quel Caos che tutti c'iniziò. Lei, mio Signore, a lui venne come l'asperso aere di gloria che ai puri aedi tocca in sorte: l'ormerica ode che devesi in lui più vasta Orma cantar, quanto il vuolsi così colà dove si puote un Rosso e più ancora le accorate genti inneggiano dalle calli ai colli una Serenissima Venexiana che pur risponde dai navigli al Po.
E conta.
E i dì che furono, l'assalse il sovvenir.
Quindi annuncio qui, alle mirate genti, la mia adesione a questa balza d'anime creative - se si potesse capire 'sto paypal! - e prego e m'infervora la richiesta a quanti ancor c'ascoltano di quell'aiuto che sempre caro fu a quest'ermo calle perchè ci sopravviva ed altri ancora accolga e dia crescenza a lor come buon lievito dell'anima.
Si levin le trombe all'accorato appello e sorga intonso l'astro di cui Ella ed Ello ed altri in generoso dare son custodi, quella luna che sì ampia e circuita dai poeti a voi s'inchina.
Or qui, delirante e folle, poso la cetra e attendo attonito del vostro colmo il segno.   
 
Orme
 
All'armi, allor s'avrebbe da dire. E squilli e squilli poi ad accompagnarle, l'armi, quelle nostre, quelle dei dolci affanni ove l'opre e i mestieri, e quello nostro, tra gli scrivani, noi con la penna in mano, e, diremmo oggi, anche sopra le tastiere, quelle dei tasti su cui pigi l'uno e l'altro ti ritorna in mano.
Tasti di destra direbbero i più, e a noi così solo gli affanni, ampi, le propaggini di ciò che resta ai segni e di cui a quelle canne degli organi di un domani.
 
Ferdigiordano
 
Organi certo, ma so che questi hanno dei ripassi mai più uguali. E quando, ormai domani, pretenderai un giusto suono, similmente oggi sarà diverso anticiparlo. Ma noi, il tu ed io che siamo, a chi diremo il sogno? Come al risveglio ci parrà conforto il sole? Sarà una distrazione? Domande a tema!, esclamerai insegnando, e tutti quelli già promossi ti promuoveranno al mondo… E il mondo è veramente il luogo in cui noi stiamo o ne siamo esuli e questa Terra è un traghetto che ci conduce a un nuovo approdo? Occorre avvertire i passeggeri. Ma chi s’incarica al megafono? Domande a tema!, ancora mi dirai. Risponderò casuale raccontandoti che sì, che eravamo nel cortile, un po’ di ieri ed altrettanto ciò che sarà; i più di noi, che non erano stati il prima tra di loro, seduti compostamente sulla grata delle attese. Loro, e se dicessi solo loro mentirei, parevano alti e maestosi giacchè fondatori ed insieme muratori, carpentieri, ingegneri, architetti e, senza meno, custodi di questo tempio in cui entrare scalzi è cosa ovvia e proseguire umili è gran che giusto.
Ridevano a fanciullate piene, quasi che essere grandi portasse ad una felicità infantile; ridevano di gran cuore come se essere al cospetto di un’opera tanto ricca non li facesse appartenere a ciò di cui essere stati non li avrebbe poi fatti diventare. Insomma, gente semplice, dissero alcuni ai lati della via. Gente folle, parlando a mezza voce quelli sui tetti. Come noi, come noi! Avrebbero insistito festanti i delfini, che per malaugurata sorte non potevano sortir dal mare.
E nel cortile l’aria dell’attesa divenne cerimonia.
 
Santificammo tutti, persino un bel gattino apparso miagolando dalle gronde. Poi, mi toccò la spalla una sicura donna. Aveva un nome - lo seppi quasi in sogno come facessi caso ad un miraggio d’acqua sul quale onde altere, perché il mare è nobile come ogni spazio intrinseco a Dio, e il suo nome urlai: - Manu!
Pensai di lei: “Gesù, ma quanto è bella!” E avendolo pensato - poiché il parlare a mente è anche, è soprattutto, mostrare dal viso ogni parola - glielo manifestai in modo tanto goffo che a me stesso sembrò il caso di arrossire.
Non ebbi modo di osservarle gli occhi, né mi bastò l’immagine subitamente ocra, tirato a candida neve in tutto il volto costantemente ovale, o i suoi capelli che impianto iniziale di ogni arcobaleno, a me parvero sorti tra una bruma e lo schiocco fatuo del mio solo sole amato. Aveva mani che a dita avrei preteso uguali a un mandorlo appena fatto marzo, e spalle che ogni Everest avrebbe preteso a contrafforte, schiena dritta di quercia intenta a superare secoli e labbra - oddio!, le labbra erano incostanti e mobili - morbide all’ordine e decise a conquistare lingue: era una bocca-esercito che invade i suoni e stramazza ogni contraddizione.
Quante parole seppe e quante ancora ha da saperne? Ciò che mi disse è qui, come di seguito alla sua genialità convengo:
 
Cura il grano.
Tu puoi.
 
E’ farina
l’attimo
che nutre
ogni ora.
 
Tu puoi.
Crea il pane.
 
Certo un dire così stretto lascia un dubbio, alle tempie e, sotto, invade anche gli occhi, ma dietro lei un Vento mosse, quasi di musica e nel cortile, quadro perché i cortili di un tempio sono geometrici, da quel vento udii distintamente questo:
 
Non tacere.
Affronta le parole.
 
Chiamale a duello:
il silenzio
se pure crea corazze
cede spazio
all’irrisolto dubbio.
 
Affronta le parole.
Dille pure.
 
Pensai covando angosce che pur volendo un cuore adatto, che so, un’anima trascorsa a farsi uomo, mai avrei risposto quasi tacendo - come dire - in un silenzio acconcio:
 
Non penso,
ascolto.
 
Il ghiaccio
senza cuore
attenua
ogni dolore.
L’acqua no:
è vita!
 
Bevo.
Non penso.
 
E poi e poi, quasi in risposta, di fianco ad un semplice saluto fu quel Poeta, che già nel cuore era tale, di cui si accostò un fiato, una supposta guardia al duplice portone della forza, i cui battenti sono: uno l’anima e l’altro la mente, che seppe il detto che qui cito a sua ragione:
 
Non correre.
La tua orma pesa.
 
Sii brezza
se il piombo del dolore
cala sopra
la faglia dell’anima.
Sii nube
il temporale passa.
 
Quell’orma ti piega.
Fingiti cielo.
 
Darei ancora sentieri alle tue Orme, Walter, e più avanti ad ogni passo di parola io insieme seguo, ma qui, ora, pur ricordando quel cortile inconscio, m’intreccio ad Ezio e ne ascolto il flusso e i toni. Stupisco quasi macero agli abbassati toni, m’invetto sui suoi alti e meraviglio aquile ad ogni volo: se tanto potete con le vostre parole indosserò ogni vostro canto come fosse ad Amalfi il sole sulle mie volte arabe.
Quindi - credo - si possa dire come m’insegna Bruno e soggiacendo a Venti che da ponente son di guerra sacra, uno scirocco di passione incalza e che Maria34 mi salvi!
Si potrebbe andare avanti all’infinito, or tocca a te che io la dritta via ho qui smarrito.
 
 
Orme
 
Che dirti:
Dolce è la platea se il vento tira
e tira a sera.
A serramanico posterei le tue parole, nessuna prima, nessuna dopo, solo così connesse allo storto del raddritto, o solo così, sonanti, che non smosse esse, rileggendole, ancora così ci riappaiono.
Sarà di sogni, sarà di vedute, a volte semplici alte funeste, e il frusciare, il frusciare che par per la calura salire, e da più porte.
Porte ornate e disadorne, ornate ai ciambellani della corte. Ah, se fosse lei qui, la dolce Signora, lei ci riderebbe di certo su, e allungando il nostro vino, incamminandosi nel lungo passo, sarebbe a dir: Son versi di razza, son versi per la "corta".
 
Ferdigiordano
 
E' lei!, l'ho vista come un'avventura che non potrei; eppure se avessi un cargo raggiungerei quell'astro e poi oltre, che andare non mi è nuovo, né potrei mare se non conoscessi l'obbligo del faro.
Dovendoti una rotta, su questo molo traccio gli avambracci che dovrebbero i remi e gli scalmi e i cerchi e l'onda tenere insieme.
Sono vela e mi gonfio
sarei pure boma se fossi un legno sano;
sarò chiglia di terra, quindi vomere, quindi lama
curva e infine zolla che scompone 
e una polena mistica guida la prora
dove il sestante indica trovarsi l'orsa. 
Tu che sei un esatto meridiano delle partenze posto tra i poli come a mostrare direzione, confronta il solco che il suo traverso aggancia a quello in arco azzurro che il giallo nume avvampa. Osserva l'aria che si marea intorno: hai fasi come d'attrazione e rendi superficie lirica le coste di passione.
Vuoi dirmi che sostanzi, che le tue finestre hanno luce a schema, eppure dai riquadri si converte il sole.
E' glabra la tua parola eppure avvolge il suo sonoro.
E' netto il suo rumore, quasi che marmo restituisca ori; non cade, nemmeno cede: è in assoluto una rivoluzione dei cunei e delle lame con le cadenze in taglio degli effimeri, per ciò intraversa il cuore lo pone in dismisura al palco come un ossuto spettatore debba cibarsi a miele a more a continuazioni. 
 
Orme
 
Allarma l’ali, ammalia dolce il tuo canto, e di nerbuti riveste l’accidente, i qui pastori che intervenuti a lo presepio s’affannano a vederne i lumi, le simmetrie, le plastiche parole che poi all’orizzonte, una volta uditele, ad una ad una ci scompaiono, lasciando i loro suoni a le memorie.
S’avesse qui a trecent’anni, sarrìa la stessa cosa. Or dunque il navigar di parole agli eventi, il dirci : siamo qui come a lu presepe, quello dalle mille lucine sfaccettate in seno a le muntagne e da le osterie a funger da salotti. I fari che s’articolano in mare come quei silenzi che a tempo ci ritornano, come quei colori che sanno di lontano.
Avessimo due mete ne potremmo indicare una. Avessimo due scelte, ne sceglieremmo una.
 
Ferdigiordano
 

E se non avendo scelta ne inventassimo lo scrigno? Non per aprirlo, beninteso, per riporvi la contesa: è mio, è tuo, sarà di entrambi!, suggerì colei che appena al ponte con un balzo scansò le rive, mostrato il fianco alla piena, ne colse la sovrabbondanza e ci aiutò sugli argini a contenerci.

E tu, dal tuo futuro, che sarà domani se pure ritrovato qui, oggi che poi viene, anche se piovesse come di sera ho visto fare astri, porrai la voce su talune scelte come a dirci di doversi un luogo anche diverso se questo si completa.

- Lei ha un dono di fantasie di rami di supporti: sulle nuove terre in generale Lei sovrasta i parti le nascite i neonatali, quindi saprà le allocazioni! - Quasi che il giusto fossero le travi che reggono il Suo strutturarsi cielo. - Lei e solo Lei, porrà il limite alle croste alle cicatrici ai valichi delle parole, - avevi voce conica, come ai megafoni di piazza.

- Se davvero fosse cielo, osserveremmo i suoi sandali che a nubi alterne fanno passi, - pensai e così a suggerirti passai col dito un vetro fino al vuoto dei gerani sul davanzale.

- Credi che i giorni andati tengano conto di come i suoi alluci ed i talloni possano un calendario, in grazia ed in finezza, essere i sandali che la conducano al premio che ogni sforzo attende? - Dicesti mentre sfoggiavi il ritmo delle sue ore.

- Attendiamo! Sapremo un dove quando potremo l'aver fatto il chiuso il circoscritto e l'agave che ci mostra il suo giardino, - dicendolo fermai un tiro di vento e Le posi ai piedi una terra, una diversa argilla, che fosse ossequio omaggio dono voto perla e gioia alle sue attese. - AccompagnamoLe questo nuovo canto che possa in margini offrirLe il lento lato dei percorsi, le strade dei rinfossi, quei camminamenti che danno al monte le altezze delle stelle e dalle stelle discendiamola a Natale, senza più Golgota e senza calendari.

- Questo è per Manu, - mi dicesti ai bordi della tavola, in quel salotto strambo di glicini e liquori. - Questo è per Manu. - e ridemmo come i bimbi al santo.

 

 

ottodicembreduemilanove

 

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a cura di Ezio Falcomer

♦Compagnia di teatro sul web Accademia dei Sensi♦

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