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Mistero dell'amore

stringi i miei fianchi
nella seta delle cosce
poi accarezzaci il viso
ch'era posato sulle rose
del tuo seno glabro a
odorarne il profumo
così respirando forte
sveleremo insieme
questo mistero.

Cose Così [di piuma e di cotone]

Sono di biscotto i tetti appena sotto la neve, pronti a sbriciolarsi al primo scroscio di latte.

Come amori dolci presi in drogheria, tre etti, due zollette, un bacio steso sul  petto, attimi fioriti, plissé discreti, vendemmie di cieli cobalto.

Dici di noi?

E' una coperta quest'amore di notte arrendevole, raffica di piuma e di cotone in bocca,  toglie il respiro e lo ridà tremante. Le ciglia danzano su occhi, di trasparenze, i cristalli e il fiato sul viso.

Carezze seminude, portate in braccio ad un galà di luna, attutita nemesi di lacrime dondolanti.

Poggia sui gomiti la malinconia e osserva muta l'acero bianco, il sicomoro, il sempiterno.

Ti stringo la mano, attenta a non cadere.

 
Manuela

 

Tremore

come da una frattura della terra
resuscitano i miasmi del profondo
la cieca attrazione del precipizio
:
ogni cesura si paga e dà pena
 
lascia che il cuore batta
lascia che torni il respiro
aspetta, aspetta
:
la faglia si richiuderà
 
rimarrà solo un lieve tremito
non percepibile né percepito
come un rumor bianco
che a volte confonde
-e annebbia-
 
 

Stanotte vado a pescare

ho stracciato i miei pensieri in tanti piccoli, minuscoli pezzettini
ho gettato i coriandoli delle mie angosce nel canale sotto casa
mi sono fermato ad ascoltare il motore dei pescherecci in partenza

hanno galleggiato a lungo nello scuro dell’acqua del canale
ho atteso invano che il mulinello li inghiottisse, niente da fare
sono rimasti lì, fluttuanti, irrispettosi e vendicativi frammenti
di pensieri notturni indesiderati e stancamente abortiti

ho chiesto un passaggio ed ho preso al volo il peschereccio
stanotte lascio che le mie angosce affoghino nelle acque del porto
su un battello chiamato "poesia" vado a pescare, non aspettatemi
 

Tanti piccoli soldatini

Ricordo il mio nome, il numero di matricola che pazientemente mia madre aveva ricamato su mutandine, magliette, asciugamani e le poche cose che la piccola valigia poteva contenere. Il treno che da Milano portava alla colonia era stracolmo di bambini, ragazzini urlanti, vocianti ed eccitati per l’esperienza nuova o l’agognata vacanza. Era una Milano del primo dopoguerra quella che il treno si lasciava alle spalle e tutto intorno ancora aveva il colore, il sapore di un periodo appena trascorso. Il viaggio in verità era assai breve: meta la Liguria, destinazione Chiavari, precisamente la colonia Leone XIII, fulgido esempio delle politiche sociali del ventennio passato. Che volete che importi, che volete ne sapesse un bimbo di 6 anni, mentre incolonnato con altri 100 attendeva di presentarsi all’appello e al controllo medico? Seguendo la suora di turno che impartiva ordini come un caporalmaggiore arrivai finalmente a destinazione e si compì così la mia iniziazione: divisa, schedatura, visita e purga di rigore, non si sa mai, il cambio d’aria... Ricapitoliamo: il numero di matricola ce l’avevo, la divisa pure, schedato ero schedato.. la purga aveva fatto effetto…un perfetto piccolo soldato. Che volere di più? “Signore….signore…” la voce gentile di un’infermiera mi svegliò da quel sogno fatto ad occhi aperti mentre attendevo il mio turno per la consueta visita di controllo. Mi guardai attorno e pensai: tutto era cambiato per rimanere tutto come prima. Tanti piccoli soldatini.

 

Reality

L’Essere inspira
illuminato
da mille rifrazioni
trapassato
da aghi e filamenti
da aculei e da grafite
da vitree aguzze schegge
estranee.
 
L’Essere aspira
sognando cime
picchi di storia e di gloria
sommità di solitudini .
 
L’Essere espira
stremato da pozzi
di arsura
sfinito da paludi di calura
dilaniato
da sciabolate intestine
da braci rabbiose
tizzoni schizzati
straziati da imprecazioni
nidi di uova e di urla
pullulanti
covate di creature
pigolanti reciproci
estranei linguaggi
coltura di ofidi
e scorpioni
anfiteatro
di legioni
di sensori disperati di luce.
 
Inspira, espira
e spira
svuotato dimentico
stupito da tanta
abbondanza
di illusioni.
 
(estate 2007)
 

Una sera, come stasera ed ogni sera.

Tipico sole
tipica luna
tipico il dove.
 
Del primo vidi le lingue:
non so descriverne la bocca.
 
Dell’altra vidi i riflessi:
non so descriverne i raggi.
 
Dell’ultimo vidi i colori:
non so descriverne i tegumenti.
 
Di che ti parlo stasera, figlio mio?
 
- Dammi la mano, Ferdi, dammi la mano.
 
Non posso, Gil; tremo al timore
di non avere altezze adatte.

Dove ci porta il blog

Una parola, un commento
andiamo anche noi
che forse il salotto stasera è più rosso
e c’è qualcuno che ci interessa
con quelle sue scarpe viola
il maglione trasandato
il sorriso accennato.
E la timidezza
la timidezza vera
quella che attira
come il suono di un fiore appena colto
come l’onda dei pensieri avvolti nel mouse.
O quella finestra accesa
di notte
sul monitor in attesa
il creare di nuovo
assopiti mai
l’insieme c’incanta
il contatto ci svolge
l’ombra di luce piena
ci viene incontro
come due più due non fa quattro.
E’ il salotto di Manu.
 

Cose Così [di mandorlo, di stelle, di sale]

Sembra sia sceso il grigio sulle spalle, quando ne senti il peso e pieghi il capo su carte, fitte di segni che non vedi se l'occhio si perde in amarezze.

Sono di mandorlo i petali poggiati sulla riva, conchiglie bianche in attesa d'impronte, sottomesse al transito dei pensieri. Sapranno di sale le tue labbra strette di noia e di vento, lo sguardo altrove, fisso davanti.

Pacato, distante da tutto ma non da te, eppur vorresti, ti siedi al bar come d'estate.  Sbatte e percuote un legno, il cartello slegato, a farti tornare, nonostante te.

Sorseggi un caffè, il gusto dimenticato in un afflato di fumo, un altro trattenuto a riempire i vuoti, poi soffiati lontano, contraffatti da giochi leggeri.

L'avvizzire nei minuti d'un giorno pervinca, questo il detestabile... Fortuna il libro nella tasca del loden, e un sentimento dorato, accende sorrisi di  stelle sulla schiena.

 

Manuela

 

Mi conservo?

Ho pensato a lungo
di non esser fatta per la felicità
tanto la trovo ridicola
fin troppo leggera in se stessa
fin troppo pesante per chi la guarda
debolmente odiosa.
Ho pensato di dovermene cavare fuori
come da una malattia
mi avrebbe ringraziata il sentimento
il giudizio e l'autostima ne avrebbero giovato.
Non le avrei permesso mai
di sfrattare la dolce malinconia
né la tempesta furibonda
che fa scrivere e annodare
i pensieri alle scialuppe.
Eppure non riesco ancora
ad amare quel che chiamo vuoto
ma di fatto non ha nome
piuttosto lo stato che riconosco
a separare il prima dal dopo
quel che ero senza te
quel che sono ora con te.

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