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Dell’idealismo (con malcelato omaggio a Giacomo Leopardi)

 
Allora, l’assunto di base è: l’idealismo è sempre un male.
Tuttavia, ammetteremo subito che a fronte del mal di vivere, il male dell’idealismo si prospetta come una specie di attenuante, un essenziale male minore inteso a renderci resistibile quello congenito, di cui è appunto il minore. Cosi, se, come scriveva Leopardi, la vita è male, l’opposizione idealistica a tale stato di natura si configura comunque come un male, ossia come un una fuga da tale condizione, una rimozione, un volo pindarico assolutamente inerte davanti al compito che si assume. Ma è un male migliore, non minore, di quello cui si contrappone. 
Così l’idealismo si prefigura un bene che non può che rinserrarsi nella propria auto-assoluzione dal male da cui cerca scampo, rischiando la caduta nel rimosso e di conseguenza la riemersione di questi nelle sembianze di un male ancora più acuto e ineluttabile.
Ma è comunque meglio del male della vita. Perché l’idealismo è la voce della ragione che cerca di opporsi a quella muta e inesorabile della natura. È cioè quella del linguaggio che tenta di portare riparo al caos insensato del creato con  l’ausilio sistematico della nomenclatura: le cose che hanno un nome sono le armi disinnescate del caos, sono l’esorcismo dell’ideale che tramuta in verbo, ossia in conoscenza, la sconosciuta agorafobia del mondo primordiale.
Già, ma le parole, si sa, non sono le cose. E la totale metamorfosi dell’obiettività del mondo in articolazioni semantiche trasforma le cose in suoni, che sono idee. Dal che poi la rifondazione del reale si concretizza sì per via logica (logos = ragione), ma di una logica basata sulla corrispondenza di quei suoni, di quelle idee- una logica ideale. Quindi il “male” dell’idealismo si situa in questa inevitabile astrazione “sonora” del linguaggio. L’idealistica verità della nostra logica più ferrea e sistematica è una musica, un’eterea connessione tra pensieri che si raggomitolano fra loro come le diverse voci di una fuga di Bach. Sarà perciò che verità e poesia sono così obbligate l’una verso l’altra, così avvicendabili.
Ci resta quindi una frattura fra il pensiero che viene posto come ricerca del bene, come possibilità di dare ordine al caos; e la sua struttura idealistica che non può far altro che pensare i rimedi, trasferendoli necessariamente nell’immaginativa, o se si vuole nell’illusione, o nell’utopia. Eppure, questa utopia razionale è tutto ciò che siamo e che possiamo essere. È il “male felice” che potrebbe traghettarci sull’altra sponda, quella degli aneliti appagati, dei desideri esauditi, chissà…
Ora però, questo approccio idealista del pensiero si estrinseca in modalità diverse ed eterogenee che potremmo ricondurre a due grandi classi contrapposte, le quali, nel riprodurre comunque l’illusione idealistica, si pongono sugli opposti spalti dell’errore dentro l’errore (il negativo, l’idealismo sbagliato); e dell’errore dentro l’eticità (il positivo, l’idealismo in progress). Nel primo caso l’utopia idealista viene asservita allo stesso stato di natura da cui è invece chiamata ad affrancarci: così il soggetto sussume il pensiero alla pulsione (la sua), usandolo come un grimaldello per effrangere e depredare i beni materiali che appetisce dal mondo e, così facendo, andando in retromarcia dal pensiero alle cose- ossia istituendo un erroneo primato di queste su quello. Nel secondo caso, l’utopia non è serva di niente, e si auto-istituisce, come è nelle sue premesse, come riflessione creatrice, che immagina la realtà e cerca di plasmarla. Secondo un piano etico, che è l’unica luce a risplendere sul male di vivere. È questa l’unica, sola e autentica sinderesi del mondo; è questo l’unico discernimento fra bene e male dell’essere e dell’umano. Questa differenza fra utopie, questo discrimine fra l’imagérie onesta e quella proditoria. Questo illudersi per il bene, a fronte ci chi si illude per il proprio bene. Anche se illusorie ambedue, anche se l’illusione per un bene finisce sempre per capovolgersi nella determinatezza del male.
   
Cedo la parola a Giacomo Leopardi, Zibaldone, pagine 4175 - 4177:
"Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. 
L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.
Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?[4175].
Cosa certa e non da burla si è che l'esistenza è un male per tutte le parti che compongono l'universo (e quindi è ben difficile il supporre ch'ella non sia un male anche per l'universo intero, e più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, épître sur le désastre de Lisbonne. Non si comprende come dal male di tutti gl'individui senza eccezione, possa risultare il bene dell'universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d'altro, possa risultare un bene.) Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al lor modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perché il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò essendo, come non sì dovrà dire che l'esistere è per se un male?
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. [4176 ]Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna. 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri [4177] sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere. (Bologna. 22. Apr. 1826.)"

Fin qui il grande recanatese. Ovvio che Leopardi non ci parla dell’idealismo. Vuole soltanto convincerci che “tutto è male”. Il fatto è che predicando il male del tutto, nella forma verbale “è”, si ascrive il giudizio “è male” alla struttura grammaticale che lo esprime; lo si chiama dentro al linguaggio, perché è solo questo che “giudica”. È l’idea del male che si adagia sul “tutto”, in quanto che questi, di per sé, non ha “idee” che discernano tra bene e male. Il tutto si muove per approssimazione, ma non perché sia bene (a meno che non si sia panteisti), ma per necessità. Ci vuole un Logos per dire che sia male (o bene), e il logos non può altro che essere platonico, in quanto essere, voce del verbo essere.
Penetrando nella Storia, osserveremo come la Spaltung idealistica del pensiero nelle due grandi tipologie in cui l’abbiam posto, si riproducono ciclicamente, riverberandosi nelle varie epoche sotto forme e definizioni ogni volta riesumate e ogni volta trasmutate. Così, l’utopia disonesta, ossia l’ideale dell’egocentrico che illude se stesso abbarbicandosi alla calamita della soddisfazione pulsionale, veste panni sempre diversi, cerca di adattarsi al mondo che trova, ma sempre con quell’unico pungolo rapace che tormenta il suo desiderio. E lo fa “rubando” i bisogni dei più, dei popoli, per sbandierarli come proprio ideale, in dissimulazione di quello vero che gli preme in animo, che è quello di fregarli, di spogliarli di ogni cosa, a cominciare dalla loro libertà. Dall’altra parte, l’utopia onesta cercherà di organizzarsi in senso diametralmente opposto, per recuperare l’ideale, a cominciare anche qui dalla libertà, e porlo a fondamento di un ordine giusto del mondo. Ma le cose non cambiano, perché anche immaginandosi un mondo migliore si finisce per sovrapporre una specie di allucinazione idealistica alla pelle refrattaria della realtà. La cui fatale rivolta farà costantemente arretrare l’utopia nel crepuscolo. 
A rappresentanza di questo comunque sventurato dualismo, possiamo ricorrere ad alcune figure dell’attualità. Volendo per forza produrre un avanzamento, l’idealista onesto diverrà ipercritico anche coi suoi sodali, innescando una specie di contesa permanente su cosa è più avanti di cosa e, nel vano illudersi di salvaguardare ogni diritto di ogni componente sociale, finirà col ledere con un’idea di diritto un’altra idea di diritto. E per di più incappando nell’insinuazione del “buonismo” della parte avversa. Quanto a quest’ultima, essa soccombe nell’analisi alla propria malaintenzione. Perché con tale termine, il “buonismo”, si vuole incriminare la tendenza a farsi umanamente e socialmente carico dei problemi dei non-rappresentati, degli emarginati, dei poveri, degli immigrati. Mentre si ritiene gratuitamente che questi ultimi siano essi stessi responsabili del proprio malessere, e che quindi i “buonisti” si farebbero ingenuamente infinocchiare dai falsi piagnistei di bande di imbroglioni, “brutti sporchi e cattivi”, che andrebbero a loro dire arrestati, incarcerati o ricacciati indietro. La malafede di tali illazioni si rivela nel menefreghismo stesso di chi le espone: si sente distintamente il disinteresse del propugnatore di tale idealismo “malandrino” nei confronti del soggetto di cui parla. Gli interessa soltanto la “vox populi”, cui prestare orecchio per “rubarla”, come dicevamo, ed esporla alla finestra come una bandiera elettorale. Non c’è pragmatismo in tale impiego razzista, come si vuol far credere. Ma solo una sorta di vampirismo particolarmente spregevole: succhiare il peggio dal fondo del pregiudizio per risputarlo su gente aizzata apposta e farsi consegnare le chiavi del potere. È solo un esempio, ma ci dice che le cose non cambiano. E non cambiano per vizio di idealismo: le cose non sono le cose, ma i fantasmi delle idee che gli abbiamo affibbiato. L’idealista onesto si figura sempre un mondo diverso da quello disponibile, in grazia della sua idea del mondo, senz’altro migliore. Ma non è perché la nostra idea del mondo sia migliore di lui che sarà emendato. Le idee non sono le cose, e non le cambieranno.
Postilla: ho detto che l’idealismo “malandrino” soccombe nell’analisi alla propria malaintenzione. Sì, ma poi non ho concesso questa analisi. Ecco: nella sua critica alla illusione “buonista” di andare incontro ai bisogni di quelli che la critica stessa reputa lestofanti tali e quali a tutti gli altri (anzi, un po’ più uguali!), tale idealismo si considera molto realista, e suppone di potersi ritenere più credibile proprio in  grazia di questa sua Realpolitik. Ma nulla è reale nel linguaggio e nell’idealismo. La loro pretesa si limita a criticare l’utopia avversa semplicemente con una utopia meno complessa, più elementare. La loro posizione quindi precede quella dei cosiddetti “buonisti” e non può di conseguenza risolvere un problema che non ha neanche ancora incominciato a prendere in considerazione.
 

                                                                                

 

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