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Una domenica

C'era quella pioggia che incombeva, accesa all'improvviso, sul gruppo. Tutti erano corsi in casa, trascinando le sedie. Riuniti nella piccola camera a fianco della cucina, Lui illustrava le sue creazioni matematiche, a due, tre dimensioni. Solidi che avevano un che di fantascientifico, mondi fantastici, modelli derivati da formule matematiche.
Immerso nel racconto della genesi di quei modelli, il mio pensiero saliva lungo le scale di quella casa, una porzione di una casa contadina trasformata in un salotto d'arte. C'era amore che traspariva da quelle pietre, dalla cura di quel giardino, tra la legna da ardere per la stagione fredda, rigorosamente allineata con un ordine... oserei dire matematico.
C'era, sulla destra, il “gabbiotto” trasformato e riconvertito in laboratorio. Sembrava di entrare in una officina antica, dove folletti preparavano giocattoli. Modelli tridimensionali, mondi sconosciuti, dimoravano appoggiati sulle mensole. Gli attrezzi da giardino convivevano, borbottando, a quell'invasione. - Che modi, non si è mai visto un trapano a colonna dalle nostre parti!- bofonchiava contrito il rastrello, e la falce rispondeva - Ma caro, devi adeguarti, il mondo cambia... -, già, rimbeccava la falciatrice - Oggi è tutto alimentato dall'elettricità.
Guardavo, incollato alla finestra del secondo piano, il giardino. La pioggia rinvigoriva il verde della vegetazione. Lei mi era apparsa improvvisamente alle mie spalle. Era una anziana signora e sorrideva.
-Bello, vero?- e con il dito mi indicava il pergolato con la gettata d'uva che faceva da tetto al lungo tavolo.
- Sì, avevo risposto un po' sconcertato, chiedendomi da dove fosse sbucata quella donna.
- Pensi che lì sotto c'è una vasca per la raccolta dell'acqua piovana e durante la guerra è stato un rifugio provvisorio per i partigiani – si era fermata un istante, come per raccogliere un pensiero e poi aveva aggiunto – Erano tempi duri allora, le SS rastrellavano casa per casa...
Guardavo quel viso da cui traspariva serenità, una pacata serenità, poi lei improvvisamente si era voltata – Ora devo andare, anche i fantasmi devono rispettare certi orari. Ho amato molto questa casa e la amo tuttora, ma sa, ad una certa età bisogna passare il testimone, e chi l'ha raccolto continua ad amarla... non è bello tutto ciò?- E voltandomi le spalle era scomparsa lungo la scala che scendeva al piano terra.
Ma su, al secondo piano, c'era anche lo studio di Lei. Le tele erano disposte a prendere luce dalla grande vetrata che interrompeva la balconata in legno. Nell'atelier dimorava il silenzio assoluto. Tra cavalletti e dipinti il dialogo era dato dal colore. Era, in realtà un colore che esplodeva sulla tela, che declinava le sue tonalità, che gioiva, che sfumava sino a dissolvesi.
Duettava il colore con quei piani bianchi, rimbalzava e si stemperava, scivolando in sfumature vive, mentre la tela lo accoglieva come una giovane amante.
E l'istante si fermava su quelle opere, su quei paesaggi che reinventano il dialogo con la natura che era, in paziente attesa, là fuori, oltre la vetrata.
Ma era nella notte fonda che dinnanzi al colore la parola prendeva vita su quel monitor. Segmenti di lettere incolonnate a formare periodi e subordinate che nascevano sullo schermo che descrivevano con parole, stati d'animo. La pesante leggerezza del vivere correva e si placava, si acquietava e lasciava spazio all'emozione che sorrideva, mentre lentamente il calendario mutava la veste del giorno.

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