Scritto da © Rinaldo Ambrosia - Dom, 12/01/2014 - 23:26
C'è nelle vene del legno l'immagine di un flusso continuo. Una corposità aspra di radici, nodi e rami. Il legno, materia viva, che vive scuotendo la sua chioma al vento.
La quercia mi copre con la sua ombra, sento le sue radici innestarsi nel terreno, correre in un percorso che non conosco in cerca di nutrimento. Il sole dardeggia e l'albero vive, come l'uomo tra terra e cielo. Lo abbraccio, sento la rugosità del suo tronco, vorrei affidargli la mia vita.
C'è un dialogo sconosciuto tra l'uomo e l'albero. La mano scorre sul legno, ne accarezza la superficie esplora le sue vene, il senso del taglio. Trucioli, odore di legno tagliato. Il legno sopravvive al taglio, al tempo all'uomo. La notte fa scricchiolare i mobili.
C'è quella matita temperata su quei banchi di scuola dove ho iniziato a scrivere. Nera, colorata con vernici al piombo. Nera come il grembiule che indosso. Nera senza fiocco. C'è il manico della pala, liscio dalle molte mani che l'hanno impugnato. Legno duro come il marmo, che sollecita i colpi, il peso del lavoro dell'uomo. La madia che raccoglie il cibo. Il mestolo bislacco, deformato dal calore e dalle minestre. Il bastone da passeggio. Impugno il manico, carico il peso e il viaggio inizia.
Amo gli alberi nella loro piena libertà. Storti, che puntano verso la luce, che spingono verso il cielo. Amo i legni lucidi, verniciati dall'uomo. Mi commuovo sempre nel vedere il colore caramellato del violino. Mani infinite di stoppino, passate e ripassate su questi legni, e il pensiero che si perde lungo quel colore che avvolge la cassa armonica del suono.
E quando gli orchestrali impugnano i loro violini, un guizzo di riflessi, dolci come il miele, riempiono la sala.
Caro amico, vorrei parlarti di quando ero una piccola pianta, generata da un esile seme, di quando mi sono alzata verso il cielo e ho aperto i miei rami a ombrello. Di quando, dopo molti anni il mio tronco si stagliava dal profilo della collina. Di quel fulmine che mi ha avvolto tra le sue spire, percuotendo e bruciando il mio tronco. Degli uccelli che hanno nidificato nei miei rami. Del cuore inciso con due iniziali di quei ragazzi che si sono baciati appoggiati alla mia corteccia. Degli anni che passano e di quegli uomini che hanno setacciato il bosco, segnando alcuni tronchi, tra cui il mio. Dei colpi di scure che mi hanno abbattuto, del carro che mi ha trasportato alla segheria. Lì, il mio corpo è stato spezzato e diviso in tante assi. Dopo che mi hanno fatto riposare per mesi all'aperto, un artigiano mi ha portato nella sua bottega. Dal mio corpo, sotto le sue sapienti e abili mani, dai miei legni, giuntati, incastrati, inchiodati, incollati è nato un mobile. Oh, non ridere uomo, perché tu non sai ancora che cosa sarai nella prossima vita, in che cosa ti trasformerai. Ora sono un armadio, e nelle notti di primavera le mie fibre si stirano tutte e sentono il richiamo della stagione. Sono colpi sordi quelli che emetto, scricchiolii che interrompono il silenzio della notte. Ogni tanto, una signora mi lucida con un panno intriso d'olio. Allora, il colore, l'abito che mi hanno dato, lascia la sua opacità e ritorna come nuovo. E il tuo?
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